Il cibo e l'arte, la millenaria storia d'amore raccontata a Palazzo Tupputi
Goloso e prezioso l'excursus storico di Lia De Venere
venerdì 15 dicembre 2017
07.00
Curioso, goloso, prezioso: perché in fondo il cibo fa parte imprescindibile della vita e l'arte non hai mai potuto fare a meno di studiarlo, imitarlo, raccontarlo, decantarlo e, con le avanguardie, persino utilizzarlo a materia prima del sublime.
Un viaggio appassionante, quello in cui Lia De Venere, storico e critico darte, ha condotto i curiosi presenti al secondo appuntamento del ciclo di incontri con larte promossi dal Cineclub Canudo nel laboratorio urbano di Palazzo Tupputi. Una serie di lezioni estremamente visuali, dedicate a raccontare l'arte applicata ai diversi campi della vita.
E così, dopo la moda, si è parlato di cucina.
Quella che nei primi tacuinum sanitatis mediovali veniva descritta in immagini, per scopi pratici legati alla medicina, ma già prima, nei graffiti rupestri, testimoniava le abitudini alimentari delle popolazioni nomadi e stanziali.
Il cibo, nelle decorazioni più antiche aveva funzioni precise: nei mosaici romani gli avanzi di pasti intagliati su pareti e pavimenti dimostravano le doti ospitali del padrone di casa; il cibo abbondante degli opulenti mercati opulenti della pittura fiamminga, serviva a dar sfoggio della ricchezza del territorio all'Occidente intero; nelle nature morte del '500 di Annibale Carracci e Caravaggio il grande realismo dei ritratti si accompagnava ad un altrettanto grande simbolismo, cosicché ogni elemento non era mai giustapposto per caso. Di mezzo c'era quasi sempre la fede. Poi venne il grande Arcimboldo, che la frutta e la verdura le usava per ritrarre, in un gioco grottesco e divertente che piaceva ai suoi committenti, principi e imperatori. Ma era ancora pittura funzionale, spiega la De Venere.
L'impressionismo, invece, cambiò tutte le prospettive: a tavola, sui campi, nelle colazioni immortalate da De Nittis, Renoir, Manet non c'è nulla da dimostrare, se non l'atto in sé di un momento conviviale della comune borghesia, a cui si è rubato un momento di vita quotidiana. Nessuno in posa, nulla da dimostrare, da sottintendere, da ricordare. Di qui al fare del cibo un simbolo della rottura col passato, la strada fu breve.
Non ci fu movimento successivo che non fece un uso personale: il futurismo ne fece il simbolo dell'arte che irrompe nella vita quotidiana e detta leggi (cosa mangiare e come presentarlo, come mangiare e renderlo un atto artistico), il surrealismo lo adoperò a scopi altamente simbolici, il new Dada se ne appropriò per trasformarlo in arte e decantare una poetica dell'oggetto tutte nuova e fare il verso al consumismo. Claes Oldenburg, con le sue Sculture Molli di vinile imbottito che riproducono cibi di largo consumo, continua a provocare ancora oggi. Con innegabile successo. Lo stesos di chiu usa il cibo per denunciare o far politica con l'arte.
La De Venere non ha trascurato nulla, sebbene ci fosse ancora molto da raccontare. Per esempio su come uno chef interpreta artisticamente il cibo e lo manipola per renderlo alla moda. Tema che forse un intero esame di corso di laurea non basterebbe ad approfondire a dovere.
Un viaggio appassionante, quello in cui Lia De Venere, storico e critico darte, ha condotto i curiosi presenti al secondo appuntamento del ciclo di incontri con larte promossi dal Cineclub Canudo nel laboratorio urbano di Palazzo Tupputi. Una serie di lezioni estremamente visuali, dedicate a raccontare l'arte applicata ai diversi campi della vita.
E così, dopo la moda, si è parlato di cucina.
Quella che nei primi tacuinum sanitatis mediovali veniva descritta in immagini, per scopi pratici legati alla medicina, ma già prima, nei graffiti rupestri, testimoniava le abitudini alimentari delle popolazioni nomadi e stanziali.
Il cibo, nelle decorazioni più antiche aveva funzioni precise: nei mosaici romani gli avanzi di pasti intagliati su pareti e pavimenti dimostravano le doti ospitali del padrone di casa; il cibo abbondante degli opulenti mercati opulenti della pittura fiamminga, serviva a dar sfoggio della ricchezza del territorio all'Occidente intero; nelle nature morte del '500 di Annibale Carracci e Caravaggio il grande realismo dei ritratti si accompagnava ad un altrettanto grande simbolismo, cosicché ogni elemento non era mai giustapposto per caso. Di mezzo c'era quasi sempre la fede. Poi venne il grande Arcimboldo, che la frutta e la verdura le usava per ritrarre, in un gioco grottesco e divertente che piaceva ai suoi committenti, principi e imperatori. Ma era ancora pittura funzionale, spiega la De Venere.
L'impressionismo, invece, cambiò tutte le prospettive: a tavola, sui campi, nelle colazioni immortalate da De Nittis, Renoir, Manet non c'è nulla da dimostrare, se non l'atto in sé di un momento conviviale della comune borghesia, a cui si è rubato un momento di vita quotidiana. Nessuno in posa, nulla da dimostrare, da sottintendere, da ricordare. Di qui al fare del cibo un simbolo della rottura col passato, la strada fu breve.
Non ci fu movimento successivo che non fece un uso personale: il futurismo ne fece il simbolo dell'arte che irrompe nella vita quotidiana e detta leggi (cosa mangiare e come presentarlo, come mangiare e renderlo un atto artistico), il surrealismo lo adoperò a scopi altamente simbolici, il new Dada se ne appropriò per trasformarlo in arte e decantare una poetica dell'oggetto tutte nuova e fare il verso al consumismo. Claes Oldenburg, con le sue Sculture Molli di vinile imbottito che riproducono cibi di largo consumo, continua a provocare ancora oggi. Con innegabile successo. Lo stesos di chiu usa il cibo per denunciare o far politica con l'arte.
La De Venere non ha trascurato nulla, sebbene ci fosse ancora molto da raccontare. Per esempio su come uno chef interpreta artisticamente il cibo e lo manipola per renderlo alla moda. Tema che forse un intero esame di corso di laurea non basterebbe ad approfondire a dovere.