Inno al Bisceglie di un biscegliese di ritorno
L'omaggio di un tifoso nerazzurro d'eccezione: Gianluca Veneziani per BisceglieViva
domenica 7 maggio 2017
18.42
C'era un'aria fremente oggi nel mio paese, un'aria carica di attesa e di trepidazione. Ma non era la consueta aria domenicale, quella del post-pranzo, quando tutto tace e il silenzio benedice la sacrosanta pennichella dopo l'abbuffata. No, era un altro silenzio, quello di un paese che non dorme ma è allo stadio, un silenzio interrotto e scandito a tratti da urla di gioia, dai boati che arrivavano dal campo, ognuno a sancire un nuovo gol e la conseguente esplosione di entusiasmo. E tu che eri a casa, a fiutare, quasi a respirare quell'aria di attesa, ti rallegravi a ogni grido che rompeva il silenzio, perché significava un altro gol, e la meta era più vicina, più vicina ancora…
E infine, mi trema la mano a scriverlo, è stata serie C. Oggi la squadra del mio paese, il Bisceglie, dopo oltre un cinquantennio, è tornata nella serie C nazionale. Ci mancava dagli anni '60, da quando mio zio Raffaele era un ragazzino e aveva fatto per l'ultima volta l'abbonamento al campo. Ci mancava da quando papà mi diceva di aver visto Carletto Mazzone calciatore che giocava contro la nostra squadra, e tu non ci credevi perché pensavi che Mazzone fosse nato vecchio e allenatore. Ci mancava da molto prima che io nascessi, io che potevo ricordarmi da bambino solo della serie C, ma del piano basso, la C2, da cui eravamo usciti mestamente….
E invece in una giornata come questa, quando vedi un paese avviluppato attorno allo stadio, non sono coloro che c'erano dentro, ma anche quelli che stavano fuori, fisicamente e spiritualmente, a tifare a ridosso della tribuna e della gradinata, ebbene in una giornata come questa scopri come il calcio riesca a essere l'ultima narrazione collettiva, l'ultima forma di epica contemporanea, l'unica dimensione capace ancora di trascendere l'individuo e di creare un senso di appartenenza e di comunità. Ancora di più, dirò, un senso di identificazione nei colori, nella maglia, nei cori e i luoghi, nei riti e i miti che si consumano durante una partita, il senso di un Io che per una volta si fa Noi. Un Me che si fa Ci. O meglio, C…
E questo spirito, che è proprio di tutto il calcio, si fa tanto più forte quando a giocare e a vincere è la squadra del tuo paese, perché l'identificazione non è più con una comunità estesa ma sradicata, e per lo più anonima, come quella di chi tifa Juve, Milan o Inter, ma è un'appartenenza fatta di facce, di volti e nomi noti, di tifosi che senti tuoi fratelli o tuoi amici, e magari tuoi amici lo sono per davvero, di parenti, emigrati di ritorno, terroni nostalgici che ti dicono – e là ti commuovi – di aver seguito la partita dalla Thailandia e di essersi sentiti da lì, da così lontano, ancora più fieramente biscegliesi. La nostalgia glocal, l'amore per la propria terra che ritorna a diecimila chilometri di distanza, l'orgoglio delle origini, che sussulta e si fa più forte, animato dalle vittorie di una squadra.
È davvero un tornare a Casa, questo successo, un fare di nuovo la comunità, è un restituirle quel piccolo amor patrio, che è anche il più originario e forse il più autentico, cioè il legame indissolubile con la città dove sei nato. La squadra vincente ne diventa allora quasi il vessillo, insieme il simbolo e la sintesi, il manifesto ludico ma non per questo meno serio del suo riscatto, l'immagine bella, la vetrina da mostrare, la carta d'identità comune. Perché ognuno di noi oggi non era più Mario, Francesco, Gianluca, ognuno di noi non era un medico, un avvocato, un contadino o un giornalista, ognuno di noi oggi era solo un "tifoso biscegliese".
Questo sa farlo solo lo sport, il miglior spot per una città. Questo riesce a farlo solo il calcio, forse perché ti restituisce alla gioia bambina di esultare per un gol, alla voglia di credere in un Sogno e un Mito, a quella grazia dell'eterno che si condensa nell'istante della rete, quando abbracci il tuo vicino di sedile anche se non l'hai mai visto prima in vita tua e poi chiami in lacrime il tuo babbo e gli comunichi, in mezzo al trambusto, la lieta novella: "Sì, papà, oggi abbiamo vinto. Siamo in serie C…"
E infine, mi trema la mano a scriverlo, è stata serie C. Oggi la squadra del mio paese, il Bisceglie, dopo oltre un cinquantennio, è tornata nella serie C nazionale. Ci mancava dagli anni '60, da quando mio zio Raffaele era un ragazzino e aveva fatto per l'ultima volta l'abbonamento al campo. Ci mancava da quando papà mi diceva di aver visto Carletto Mazzone calciatore che giocava contro la nostra squadra, e tu non ci credevi perché pensavi che Mazzone fosse nato vecchio e allenatore. Ci mancava da molto prima che io nascessi, io che potevo ricordarmi da bambino solo della serie C, ma del piano basso, la C2, da cui eravamo usciti mestamente….
E invece in una giornata come questa, quando vedi un paese avviluppato attorno allo stadio, non sono coloro che c'erano dentro, ma anche quelli che stavano fuori, fisicamente e spiritualmente, a tifare a ridosso della tribuna e della gradinata, ebbene in una giornata come questa scopri come il calcio riesca a essere l'ultima narrazione collettiva, l'ultima forma di epica contemporanea, l'unica dimensione capace ancora di trascendere l'individuo e di creare un senso di appartenenza e di comunità. Ancora di più, dirò, un senso di identificazione nei colori, nella maglia, nei cori e i luoghi, nei riti e i miti che si consumano durante una partita, il senso di un Io che per una volta si fa Noi. Un Me che si fa Ci. O meglio, C…
E questo spirito, che è proprio di tutto il calcio, si fa tanto più forte quando a giocare e a vincere è la squadra del tuo paese, perché l'identificazione non è più con una comunità estesa ma sradicata, e per lo più anonima, come quella di chi tifa Juve, Milan o Inter, ma è un'appartenenza fatta di facce, di volti e nomi noti, di tifosi che senti tuoi fratelli o tuoi amici, e magari tuoi amici lo sono per davvero, di parenti, emigrati di ritorno, terroni nostalgici che ti dicono – e là ti commuovi – di aver seguito la partita dalla Thailandia e di essersi sentiti da lì, da così lontano, ancora più fieramente biscegliesi. La nostalgia glocal, l'amore per la propria terra che ritorna a diecimila chilometri di distanza, l'orgoglio delle origini, che sussulta e si fa più forte, animato dalle vittorie di una squadra.
È davvero un tornare a Casa, questo successo, un fare di nuovo la comunità, è un restituirle quel piccolo amor patrio, che è anche il più originario e forse il più autentico, cioè il legame indissolubile con la città dove sei nato. La squadra vincente ne diventa allora quasi il vessillo, insieme il simbolo e la sintesi, il manifesto ludico ma non per questo meno serio del suo riscatto, l'immagine bella, la vetrina da mostrare, la carta d'identità comune. Perché ognuno di noi oggi non era più Mario, Francesco, Gianluca, ognuno di noi non era un medico, un avvocato, un contadino o un giornalista, ognuno di noi oggi era solo un "tifoso biscegliese".
Questo sa farlo solo lo sport, il miglior spot per una città. Questo riesce a farlo solo il calcio, forse perché ti restituisce alla gioia bambina di esultare per un gol, alla voglia di credere in un Sogno e un Mito, a quella grazia dell'eterno che si condensa nell'istante della rete, quando abbracci il tuo vicino di sedile anche se non l'hai mai visto prima in vita tua e poi chiami in lacrime il tuo babbo e gli comunichi, in mezzo al trambusto, la lieta novella: "Sì, papà, oggi abbiamo vinto. Siamo in serie C…"