«Mario Corso: una gazzella, un giocoliere raffinato. Un signore»

Il ricordo del dottor Antonio Marzano

domenica 21 giugno 2020 13.32
A cura di Antonio Marzano
Ero a Milano in occasione di un congresso alcuni anni fa, quando passeggiando in Piazza San Babila nel pomeriggio lo riconobbi.
Indossava una giacca blu chiaro con camicia celeste e cravatta regimental: la sua andatura pareva incerta e il suo sguardo che sembrava spaurito me lo confermarono subito. PensaI: «Sì, è lui! È Mario Corso!».

Ci sono poesie che si imparano a memoria da bambino e si indovano (collocano) profondamente nella regione encefalica della memoria per non essere dimenticate più.
La mia poesia preferita fa così: Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarnieri, Picchi; Domenghini, Mazzola, Jair, Suarez, Corso.

L'imprimatur della passione avvenne negli anni '60, quando avevo intorno ai dieci anni. Il colore azzurro nero della maglia, i pantaloncini neri, lo stadio di San Siro che nella mia mente di bambino assurgeva a luogo lontano, magico e irraggiungibile. E poi c'erano loro... I miei eroi, i miei calciatori: ballerini sull'erba eleganti, raffinati, corretti. Si muovevano come dei gran signori che dispensavano emozioni, passioni, brividi e urla di entusiasmo.

La prima rete arrivava quasi sempre nei primi dieci minuti di gioco: "gioco" è un termine riduttivo; non era gioco, era danza, danza senza il pallone, danza di gesti, di curve, di scatti, di fermi. Danza senza contatti, senza contrasti, senza spinte o piedi tra le gambe. Danza senza cadute, senza lamenti, senza infortuni, senza farsi del male.

Tanto che - e qui veniamo a Mario Corso - egli si muoveva come una ballerina della Scala, coi calzettoni abbassati, le caviglie esposte, e non c'erano né ematomi né distorsioni. Perché negli anni '60 il gioco del calcio consisteva nel cercare di far entrare il pallone nella porta, facendo sollevare la rete, senza toccare l'avversario. Il bersaglio era allora il pallone, che con la carezza dei piedi veniva con scambi eleganti e signorili spinto verso la porta. Il bersaglio non era l'avversario, poi divenuto un birillo da abbattere a calci, a spintoni e a pugni.

Di questa danza classica nello stadio di San Siro Mario Corso era uno degli attori più importanti. Si muoveva poco, sembrava che giocasse con malcelata indolenza, quasi a tenersi lontano dai "contatti umani". Le sue lunghe gambe scoperte e le sue sottili caviglie mettevano quasi in soggezione l'avversario il quale sentiva da parte di Mario una presenza che voleva dire «L'onor ti basti»!

Poi, quando partiva, sembrava una gazzella irraggiungibile e sgattaiolando tra gli avversari raggiungeva l'aria di rigore e mentre saliva nello stadio il delirante entusiasmo della fremente attesa e palpitante emozione, veniva fuori così dal nulla il suo piede sinistro che accarezzava con la parte mediale il pallone e questo partiva in una traiettoria che prevedibilmente lo avrebbe portato fuori dallo specchio della porta e che poi così con un refolo di vento seguiva una parabola verso l'interno, imprevedibile, che finiva la sua corsa sollevando la rete della porta.

Mario Corso: un signore, oltre che un giocoliere raffinato. Il suo capolavoro erano le punizioni, calciate in un modo che allora solo lui o pochissimi altri fuoriclasse come lui sapevano calciare: "a foglia morta". La barriera veniva superata da un pallone alto, irraggiungibile, calciato da un sinistro che pareva fosse un piede torto congenito e invece era guidato da una tecnica impareggiabile che con l'effetto impresso lo faceva ritornare nello specchio della porta.
Rete!

Grazie Mario, per tutte le emozioni che mi hai regalato. Grazie.