Attualità
«Ci spiano e non pagano le tasse»: da Trani Boccia punta il dito sui colossi del web
La colpa è però della politica che non regolamenta la digital economy
Bisceglie - lunedì 25 settembre 2017
13.25
È giusto lavorare gratis per Facebook, Instagram, Twitter e Google e per tutte le multinazionali della digital economy, che, fornendoci un servizio magari gratuito, ci spiano ventiquattr'ore su ventiquattro? È giusto soprattutto farlo se queste imprese in non pagano nemmeno una web tax?
Per il presidente della commissione bilancio alla Camera e presidente Digithon Francesco Boccia la risposta alla domanda va data perentoriamente, in Italia come in Europa, dalle stanze dei bottoni. E va data anche subito, perché l'economia digitale ha ormai pervaso ogni aspetto della vita e non c'è modo, per nessuno, di scampare ai meccanismi cui ci sta abituando.
L'argomento, caldissimo anche sui tavoli del dibattito politico delle ultime settimane, è stato affrontato nell'ultima giornata dell'edizione numero 17 dei Dialoghi di Trani, domenica 24 settembre.
A dibattere con Boccia, autore di una recentissima pubblicazione a quattro mani sul tema delle sfide digitali (il volume si chiama "The Challenge of the Digital Economy" e raccoglie una serie di contributi accademici) e pioniere del dibattito parlamentare sulla digital economy, è stata la giornalista RAI Barbara Carfagna, al momento tra i comunicatori più preparati sulla materia.
«Analista attento, non influenzato dai trend del momento, ma sempre proiettato sul futuro» – lo ha definito la Carfagna, Boccia è convinto che sia in corso una rivoluzione capitalistica profonda e che tocchi alla politica e alle istituzioni regolare il fenomeno.
«Tutto è inziato con la musica, morta e risorta sul web con la nascita degli mp3. Ora siamo ad un punto di non ritorno nel settore dei trasporti, del turismo, del commercio di tutti i prodotti. Amazon vale quanto la Borsa di Milano, ha in mano il 90% del commercio elettronico in Italia, che vale 32 miliardi ed è in continua espansione. Ma quando manda una fattura, lo fa dal Lussemburgo: per me questo è un reato».
Non si tratta solo di imporre una web tax, tema che per Boccia «è tutto sommato già superato. Da un lato la web tax è oggi consentita come un'opzione volontaria, dall'altro, sotto la spinta della Francia, che rivendica un Google francese come l'Italia ha un Google italiano, si sta arrivando ad accordi europei. Si tratta piuttosto di eliminare da subito il concetto di "stabile organizzazione", che è vecchio di venticinque anni e non regge più. Esiste una "stabile organizzazione" in qualsiasi luogo di business per l'impresa, a prescindere dalla località in cui si ha sede legale. E per questa organizzazione l'impresa deve pagare. Se così non accadrà ammazzeremo in breve tutta l'economia nazionale, concentrando la ricchezza in quelle sette o otto imprese cinesi e americane che, piazzandosi prima degli altri, hanno scombussolato il sistema».
Imprescindibile è, per Boccia, che il dibattito corra anche su un altro binario: i dati raccolti da chi opera sul web e profila gli utenti. «Questa enorme mole di dati nelle mani ai privati – spiega Boccia - deve entrare a far parte di un cloud pubblico, statale, affinché serva a rendere più efficienti i servizi. Se non raggruppiamo i nostri dati sensibili in un 'luogo' gestito dallo Stato vuol dire che quegli stessi dati saranno gestiti da un privato che li utilizzerà come meglio crede. Ed anche in questo caso è la politica a dover intervenire».
Per il presidente della commissione bilancio alla Camera e presidente Digithon Francesco Boccia la risposta alla domanda va data perentoriamente, in Italia come in Europa, dalle stanze dei bottoni. E va data anche subito, perché l'economia digitale ha ormai pervaso ogni aspetto della vita e non c'è modo, per nessuno, di scampare ai meccanismi cui ci sta abituando.
L'argomento, caldissimo anche sui tavoli del dibattito politico delle ultime settimane, è stato affrontato nell'ultima giornata dell'edizione numero 17 dei Dialoghi di Trani, domenica 24 settembre.
A dibattere con Boccia, autore di una recentissima pubblicazione a quattro mani sul tema delle sfide digitali (il volume si chiama "The Challenge of the Digital Economy" e raccoglie una serie di contributi accademici) e pioniere del dibattito parlamentare sulla digital economy, è stata la giornalista RAI Barbara Carfagna, al momento tra i comunicatori più preparati sulla materia.
«Analista attento, non influenzato dai trend del momento, ma sempre proiettato sul futuro» – lo ha definito la Carfagna, Boccia è convinto che sia in corso una rivoluzione capitalistica profonda e che tocchi alla politica e alle istituzioni regolare il fenomeno.
«Tutto è inziato con la musica, morta e risorta sul web con la nascita degli mp3. Ora siamo ad un punto di non ritorno nel settore dei trasporti, del turismo, del commercio di tutti i prodotti. Amazon vale quanto la Borsa di Milano, ha in mano il 90% del commercio elettronico in Italia, che vale 32 miliardi ed è in continua espansione. Ma quando manda una fattura, lo fa dal Lussemburgo: per me questo è un reato».
Non si tratta solo di imporre una web tax, tema che per Boccia «è tutto sommato già superato. Da un lato la web tax è oggi consentita come un'opzione volontaria, dall'altro, sotto la spinta della Francia, che rivendica un Google francese come l'Italia ha un Google italiano, si sta arrivando ad accordi europei. Si tratta piuttosto di eliminare da subito il concetto di "stabile organizzazione", che è vecchio di venticinque anni e non regge più. Esiste una "stabile organizzazione" in qualsiasi luogo di business per l'impresa, a prescindere dalla località in cui si ha sede legale. E per questa organizzazione l'impresa deve pagare. Se così non accadrà ammazzeremo in breve tutta l'economia nazionale, concentrando la ricchezza in quelle sette o otto imprese cinesi e americane che, piazzandosi prima degli altri, hanno scombussolato il sistema».
Imprescindibile è, per Boccia, che il dibattito corra anche su un altro binario: i dati raccolti da chi opera sul web e profila gli utenti. «Questa enorme mole di dati nelle mani ai privati – spiega Boccia - deve entrare a far parte di un cloud pubblico, statale, affinché serva a rendere più efficienti i servizi. Se non raggruppiamo i nostri dati sensibili in un 'luogo' gestito dallo Stato vuol dire che quegli stessi dati saranno gestiti da un privato che li utilizzerà come meglio crede. Ed anche in questo caso è la politica a dover intervenire».