Artelisia a lavoro durante il lockdown. <span>Foto Annalisa la Forgia</span>
Artelisia a lavoro durante il lockdown. Foto Annalisa la Forgia
Attualità

Il grido degli artisti invisibili durante l'emergenza Covid

La lettera aperta di Artelisia, giovane illustratrice biscegliese

Abbiamo ascoltato tante campane, tante urla, tanta sopportazione che derivava dalla forza che ogni comparto professionale metteva in primo piano per poter andare avanti. Dal settore turistico a quello ristorativo, per passare al settore moda e, non ultimo, il settore industrial-commerciale. Pochi, tuttavia, in questa emergenza hanno tenuto conto di coloro che hanno effettuato un atipico percorso di studi ma che hanno raggiunto i propri sogni sfruttando le proprie mani e la propria creatività.

Parliamo degli operatori dell'arte, in particolar modo disegnatori, illustratori, scultori e pittori che nel periodo di emergenza da pandemia si sono trasformati in artisti invisibili ma che c'erano sempre, pronti a dare messaggi. Banksy è il fulgido esempio di come dalle loro matite o dai loro colori, dalla loro visuale a largo raggio si possa mostrare fatica, conforto, disagio e successivamente gioia per la fine di un incubo.

Ed è stata Annalisa La Forgia alias Artelisia, una degli artisti di maggior talento sul territorio biscegliese, a dover momentaneamente posare i propri strumenti da lavoro per poter prendere in mano la tastiera del proprio computer, descrivendo le sensazioni e i dubbi che attanagliano la sua categoria alle battute conclusive di questa emergenza.

«Diceva Rita Levi Montalcini "Non abbiate paura dei momenti difficili, il meglio viene da lì". Una condizione di dolore e di sofferenza è per gli artisti più di ogni altri una dimensione fondamentale per la creazione, spesso feconda di quella spinta generatrice che è l'ispirazione.
Nell'isolamento, in uno spazio fisico ristretto lo spazio del sé può compiersi totalmente e l'immaginazione può dilatarsi come il tempo quando si è immersi nel silenzio. Quella del lockdown sembra quindi essere stata la situazione ideale per dar sfogo alla creatività. Almeno teoricamente. In pratica, questo tempo strano ha costretto forzatamente tutti quanti a chiudere le porte senza riuscire a comprendere quello che ci stava accadendo, ma avvertendo solo l'urgenza di farlo per il bene dell'umanità. Di fronte alla vita che si spegne abbiamo rinunciato (e ne abbiamo il dovere) parzialmente alla nostra libertà "materiale", valore imprescindibile nell'esperienza della comprensione propria e del mondo in rapporto a noi stessi. E quindi, la perdita immediata, giustificata sì, ma difficile da metabolizzare, soprattutto alla luce della velocità e voracità delle nostre vite iperattive e tristemente iperproduttive, ha chiuso in gabbia anche le idee, segnando i confini di ciò che invece funziona solo come un mare aperto e con un ritmo differente. Da qui il blocco creativo.

Ciò che serve agli artisti e nello specifico a creatori di immagini per esprimersi è uno scambio osmotico tra coscienza e vita fenomenica permeata attraverso lo sguardo sulle cose anche semplici e sulle molteplici esperienze che la vita può offrirci. Lo sguardo può, anzi deve essere anche sguardo interiore, ma la "prigione" deve essere un momento di riflessione, quindi successivo alla raccolta di dati emotivi. L'esigenza di capire invece qualcosa che ci ha investiti senza preavviso ha oscurato l'emisfero destro del cervello, conferendo al sinistro il compito di sistemare lo scompiglio che la pandemia ha causato: in questo periodo quindi abbiamo forse avvertito la necessità non di creare ma di allenare e di non lasciar morire la creatività. Per me è essenziale l'aspetto ludico nel processo creativo perché riesce a darci nuove visioni. In questo periodo quindi ho sperimentato. Sperimentare significa anche essere pronti all'inaspettato perché intensifica l'universo delle possibilità. C'è un'analogia quindi con quello che ci è successo.

Io sono stata devo ammettere fortunata, perché ho trascorso la quarantena a casa del mio compagno, in campagna, ma nel frattanto che l'unico open space di molti è stato il balcone, un luogo in inarrestabile espansione è diventato con più vigore il web che si gonfia come un airbag contro la caduta nello sconforto e nello smarrimento con l'effetto collaterale pernicioso di gonfiare anche la convinzione tout court della sua essenziale utilità, rendendola pertanto irrinunciabile e salvifica per le relazioni.
Una contraddizione sostanziale, perché il virtuale altera e distorce la percezione dei significati aggredendo l'ontologia delle entità che ne risulta storpiata.

Sulle superfici dello screen tutto rimane superficiale, tutto cambia con lo scrolling di un dito. Ai tempi del coronavirus, a parte gli abusi, bisogna confessare che i social un valore intrinseco hanno dimostrato di averlo: il loro potere positivo viene fuori quando l'attività che si svolge con essi non è alternativa e sostitutiva della realtà ma coadiuvante.
Ho gradito le mille iniziative dei creativi di ogni genere e di ogni dove, da musicisti ad attori, da scrittori a disegnatori e ad artigiani, che per puro spirito di appartenenza e di aggregazione si sono indistintamente uniti sotto l'egida dell'hashtag "#unitiper" atti a donare un momento di leggerezza o ad offrire concretamente sostegno alla sanità attraverso aste di beneficenza estemporanee a cui io stessa ho partecipato. Questo è un aspetto nobile non trascurabile. In situazioni eccezionali come questa e se filtrato l'utilizzo del web può rappresentare un'uscita di emergenza e funzionare da luogo di incontro e di vicinanza.

In sintesi, diciamo quindi che la parte più intima del lavoro di un artista non può prescindere dalla sua connessione col mondo reale.
Da un punto di vista più profano, l'altro tipo di connessione, virtuale, e tutti i dispositivi elettronici che la consentono altro non sono che strumenti di lavoro e come tali vanno considerati e rispettati; indispensabili questi per molti creativi professionisti, per altri addirittura unici: dunque per queste figure già avvezze allo smart-working probabilmente non è cambiato molto. Molti illustratori hanno già la propria postazione attrezzata nella propria casa, quindi hanno sofferto meno rispetto a chi invece svolge lavori dove le sedi (o gli ambienti) sono elementi costitutivi o comunque qualificanti di quell'attività.

In questo periodo abbiamo tutti verificato l'importanza delle varie discipline artistiche nelle nostre vite; tutti noi dunque rivendichiamo il diritto di avere il giusto riconoscimento professionale e giuridico: quello che per alcuni può sembrare un passatempo è invece il frutto di sacrifici di persone che hanno deciso di fare dell'arte la propria vita.

Nella "fase 2", dopo aver provato a descrivere quello che abbiamo vissuto nel lasso precedente, ciò che diventa indispensabile è la memoria. L'arte ha in sé la capacità di ricordare, anche se lo fa con linguaggi sempre nuovi. Una memoria collettiva è necessaria a stabilire un'identità comune che ci permetta di restituire il senso di condivisione che è il vero motivo per cui facciamo tutto ed esistiamo come individui, molto fragili».
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