Pasquale Valente. <span>Foto Aprilia Racing</span>
Pasquale Valente. Foto Aprilia Racing
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Pasquale Valente, talento biscegliese nei box della MotoGP - INTERVISTA

Dalla passione nata tra le strade di Bisceglie al lavoro nei circuiti mondiali: storia di un tecnico che ha fatto delle corse la sua vita

Dalla Puglia ai circuiti internazionali della MotoGP, con la testa e il cuore sempre a Bisceglie. Pasquale Valente è uno di quei profili che difficilmente passano inosservati nel paddock: tecnico meticoloso, instancabile lavoratore e voce rispettata ai box. Ma prima di diventare una figura di riferimento nel mondo delle corse, c'è un ragazzo cresciuto tra le vie di Bisceglie, con una passione per i motori che ha saputo trasformare in carriera. In questa intervista ci racconta il dietro le quinte del suo lavoro, il percorso che l'ha portato fin qui e quanto conti, ancora oggi, portare con sé le radici della propria città.

Com'è nato il tuo interesse per il mondo dei motori e come sei arrivato alla tua professione attuale?
«Sono nato nel '94, e quando ero bambino erano gli anni d'oro di Schumacher alla Ferrari e Valentino Rossi in MotoGP. Sono cresciuto con questi due idoli, oltre al calcio che mi ha sempre appassionato. In famiglia non c'era nessuno particolarmente appassionato a moto o gare. Io sono sempre stato attratto dalla competizione, e le gare in moto mi sembravano più spettacolari della Formula 1: più combattute, più emozionanti. Valentino poi era un personaggio incredibile, mi affascinava. Mi svegliavo anche di notte per seguire i GP dall'altra parte del mondo. Quando è stato il momento di scegliere l'università ho cercato un percorso che mi avvicinasse a quel mondo e che mi piacesse anche a livello di materie. Così ho scelto Ingegneria Meccanica al Politecnico di Bari. All'inizio sembrava un sogno lontanissimo: quando parlavi di MotoGP o Formula 1 ti guardavano come se stessi parlando di fantascienza. Eppure ci credevo. Non sono mai stato un genio, ma sapevo che con tanto impegno e studio ce l'avrei fatta. Durante la triennale ho fatto un Erasmus a Barcellona, che consiglio a tutti: ti cambia completamente. Poi anche un'esperienza all'Imperial College di Londra, fondamentale per l'inglese e per aprire ulteriormente la mente. Alla fine ho scelto di proseguire con la magistrale a Modena, patria dei motori: lì i legami col mondo delle corse sono forti, c'è una vera cultura tecnica».

Come sei entrato nel mondo della MotoGP, e cosa ti ha portato fino a dove sei oggi?
«Dopo la laurea ho cercato a lungo un tirocinio: sei mesi di colloqui, tra Ferrari, Ducati, Maserati, Toro Rosso. Non era semplice. C'erano tante possibilità, ma alcune non erano esattamente quello che sognavo. Ho tenuto duro, ho rifiutato offerte più "comode", e alla fine sono entrato in Ducati, nel reparto testing MotoGP. All'inizio è stato un tirocinio, poi tesi, poi post-laurea. Era un ambiente top: vedevi i piloti entrare in azienda, respiravi quel mondo. Non ero il più bravo, ma lavoravo duro, cercavo di farmi voler bene, essere disponibile. Dopo un anno mi hanno proposto un contratto, ma nel frattempo si era liberato un posto nel reparto progettazione veicolo, dove sono passato. Curiosamente, lì ho scoperto una passione nuova: la progettazione, che in università non mi aveva entusiasmato, ma che nel lavoro mi ha preso tantissimo. Parlavi con gente che andava in pista, sentivi racconti del mondiale e ti veniva voglia di provarci davvero. Dopo due anni in Ducati, a sorpresa mi ha chiamato Aprilia: cercavano un ingegnere di pista. Non avevo esperienza in pista, ma conoscevo già il mondo MotoGP e avevo un background da progettista. Mi hanno dato fiducia: volevano qualcuno da "plasmare". Mi sono trovato davanti l'opportunità della vita, anche se fino a poco prima non sapevo nemmeno che quel lavoro esistesse».
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Che significato ha per te lavorare in un team di MotoGP ad altissimo livello, come oggi con Aprilia?
«È incredibile. Già la prima gara del 2023 è stata un'emozione fortissima. Tutto è diverso, tutto è spinto al massimo. Si lavora 18 ore al giorno, in una bolla di concentrazione totale. Ma poi ci sono quei momenti — tipo in griglia prima della gara — in cui hai già fatto il tuo lavoro, e ti guardi intorno e ti dici: "Wow... guarda dove sono arrivato". Come quando è tornato in pista Martín dopo l'infortunio. Attesissimo. Ti rendi conto di far parte di un mondo pazzesco, dove il livello è altissimo e ogni dettaglio conta. Certo, il lavoro ha un costo personale: i weekend li passi sempre in giro, il tempo per te e per la tua famiglia si riduce. Serve equilibrio, determinazione, resistenza mentale. Ma anche tanta responsabilità. Io mi occupo dell'affidabilità delle moto. Se qualcosa va storto, si mette a rischio la vita dei piloti. Non puoi permetterti leggerezze».

C'è stato un momento in cui hai pensato: "Ce l'ho fatta"? E che messaggio daresti a chi sogna di seguire il tuo percorso?
«Non ho mai pensato davvero "Ce l'ho fatta". Non è nel mio carattere. Non mi piace autolodarmi, e poi non ho ancora finito. Ci sono tante cose che voglio migliorare, imparare. Ma ci sono stati momenti, come prima della partenza o oggi con Martín, in cui mi sono detto: "Sono fortunato a vivere tutto questo". Sono contento che la mia famiglia sia orgogliosa di me, e sentire il loro supporto per me è molto importante. Ai ragazzi che sognano un percorso simile direi una cosa: non dovete per forza andar via da casa, però a volte è necessario fare dei sacrifici. Io l'ho fatto per una passione forte. Studiate, sì, ma soprattutto credeteci. Non bisogna essere geni, bisogna avere fame. Trovate qualcosa che vi faccia brillare gli occhi, e rincorretela con tutto voi stessi».
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