Cultura
Pupi Avati a Bisceglie: «L'anziano è un fanciullino, perché la vita è una collina»
Ospite della seconda giornata di Libri nel Borgo Antico, il regista bolognese, al suo primo romanzo, traccia una emozionante parabola filosofica dell'esistenza. Che è un ellisse ma anche una collina
Bisceglie - domenica 27 agosto 2017
07.40
La storia della sua giovinezza, dell'amicizia con Lucio Dalla, dell'incontro con la moglie Nicola, del profondo affetto materno. E poi il legame con Giovanni Pascoli, il cui padre morì nello stesso giorno in cui suo padre e sua nonna persero la vita in un'incidente stradale a Sant'Arcangelo di Romagna. Lo stesso giorno ricevette il primo bacio da una donna. Aveva 12 anni.
Pupi Avati è un fiume in piena sul palco di Bisceglie, dove è ospite, big tra i big, della seconda giornata di Libri nel Borgo Antico.
È qui, spiega, con un profondo discorso filosofico sul senso del tempo, perché ha l'urgenza di raccontarsi, di avvicinarsi quanto più al fanciullino che Pascoli raccomandava di coltivare.
«Sono su questo palco perché ho 78 anni e so come va la vita, che nell'immaginario contadino è come una collina: mentre sale, uno immagina ciò che l'attende oltre, quando scende ha già la visione completa. Ma la vita è anche un'ellisse. Si attraversa il primo quarto inconsapevolmente: un bimbo non sa da dove viene e dove deve andare, impara tutto alla luce di una bellissima illusione. È convinto che esista il "sempre". Nel secondo quarto dell'ellisse, il bambino che è ormai uomo è già stato contaminato dalla tossicità della ragione. Ha raggiunto l'apice della collina per iniziare l'allontanamento da sé. Capisce che ciò che l'attende sarà straordinariamente meno bello di ciò che ha già vissuto. Capisce che non esiste il "sempre". Inizia qui la regressione, prima alla giovinezza, nell'ultimo quarto dell'ellisse all'infanzia. Il vecchio torna infine a guardare il bambino che è stato, accomunato a questo dal pregio della vulnerabilità. La pazza, sconfinata idea del "sempre" torna. L'uomo è di nuovo debole come nell'infanzia e, come tutti i deboli, è migliore».
Il concetto, delicato e luminoso come tutti quelli del grande regista bolognese, ha emozionato una piazza colma al limite. Anche perché è cuore e cardine de "Il ragazzo in soffitta", primo romanzo di Avati e occasione per l'intervento sul palco della kermesse letteraria.
Al centro della trama, le storie di due ragazzi (uno fortunato l'altro meno), provenienti da due città diverse (Trieste e Bologna). Due piani umani, geografici e temporali che potevano non intrecciarsi mai per caso coincidono, si abbracciano e stridono per l'infinita differenza, la profonda iniquità che è assegnata loro dall'ordine costituito delle cose. Solo l'amicizia, quel residuo fanciullino che è in tutti, permetterà di modificare le rotte delle due vite e, al momento del pericolo, di unirle in una lotta, umana e autentica, contro tutto e contro tutti.
L'Avati di sempre torna su carta, «ma senza porre alla fantasia il freno che il budget di una regia ti pone». In piena, saggia, libertà.
Pupi Avati è un fiume in piena sul palco di Bisceglie, dove è ospite, big tra i big, della seconda giornata di Libri nel Borgo Antico.
È qui, spiega, con un profondo discorso filosofico sul senso del tempo, perché ha l'urgenza di raccontarsi, di avvicinarsi quanto più al fanciullino che Pascoli raccomandava di coltivare.
«Sono su questo palco perché ho 78 anni e so come va la vita, che nell'immaginario contadino è come una collina: mentre sale, uno immagina ciò che l'attende oltre, quando scende ha già la visione completa. Ma la vita è anche un'ellisse. Si attraversa il primo quarto inconsapevolmente: un bimbo non sa da dove viene e dove deve andare, impara tutto alla luce di una bellissima illusione. È convinto che esista il "sempre". Nel secondo quarto dell'ellisse, il bambino che è ormai uomo è già stato contaminato dalla tossicità della ragione. Ha raggiunto l'apice della collina per iniziare l'allontanamento da sé. Capisce che ciò che l'attende sarà straordinariamente meno bello di ciò che ha già vissuto. Capisce che non esiste il "sempre". Inizia qui la regressione, prima alla giovinezza, nell'ultimo quarto dell'ellisse all'infanzia. Il vecchio torna infine a guardare il bambino che è stato, accomunato a questo dal pregio della vulnerabilità. La pazza, sconfinata idea del "sempre" torna. L'uomo è di nuovo debole come nell'infanzia e, come tutti i deboli, è migliore».
Il concetto, delicato e luminoso come tutti quelli del grande regista bolognese, ha emozionato una piazza colma al limite. Anche perché è cuore e cardine de "Il ragazzo in soffitta", primo romanzo di Avati e occasione per l'intervento sul palco della kermesse letteraria.
Al centro della trama, le storie di due ragazzi (uno fortunato l'altro meno), provenienti da due città diverse (Trieste e Bologna). Due piani umani, geografici e temporali che potevano non intrecciarsi mai per caso coincidono, si abbracciano e stridono per l'infinita differenza, la profonda iniquità che è assegnata loro dall'ordine costituito delle cose. Solo l'amicizia, quel residuo fanciullino che è in tutti, permetterà di modificare le rotte delle due vite e, al momento del pericolo, di unirle in una lotta, umana e autentica, contro tutto e contro tutti.
L'Avati di sempre torna su carta, «ma senza porre alla fantasia il freno che il budget di una regia ti pone». In piena, saggia, libertà.