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Storie di internati militari biscegliesi

Preziose testimonianze dirette e indirette raccolte con l'obiettivo di tenere viva la memoria

Antonello Rustico, presidente della sezione di Bisceglie dell'Anpi intitolata alla memoria di Michele D'Addato, ha raccolto alcune testimonianze in merito alle vicende di militari biscegliesi internati dai tedeschi a partire dal 1943 in seguito all'armistizio. Un lavoro di ricostruzione storiografica parallelo a quello compiuto dal professor Roberto Tarantino, presidente provinciale Anpi Bat, e dal professor Pati Luceri che hanno dato recentemente alle stampe il volume "Deportati, internati militari, partigiani e vittime della vendetta tedesca nella provincia Bat". Il testo è reperibile nella sede Anpi di Bisceglie come nelle librerie Vecchie Segherie Mastrototaro e Prendi Luna. Nel libro sono censite 517 persone, l'80% delle quali deportate nei lager naziste (di queste, il 19% non sopravvissero).

Classe 1924, Giuseppe Papagni ci accoglie nella sua casa, in via Abate Bruni, sorridente. Mi accompagna l'ingegner Pietro Preziosa, anche lui figlio di un internato militare (Imi), Francesco Preziosa. Entrambi hanno ricevuto la medaglia d'onore, lo scorso 2 giugno, dal prefetto di Barletta per il riconoscimento di quest'altra resistenza, come fu definita da un altro Imi molto noto in Italia, Alessandro Natta, segretario del Partito Comunista Italiano dopo il partigiano Luigi Longo.

Giuseppe Papagni era diciannovenne quando, il 22 agosto del 1943, partì dalla stazione di Barletta per il servizio militare: destinazione Acqui Terme, provincia di Alessandria, in Piemonte, al deposito del secondo reggimento artiglieria di corpo d'armata, dove giunse il 27 agosto.
Un paio di settimane più tardi si ebbe notizia dell'armistizio. Questo significò l'inizio di una drammatica avventura che vide coinvolti in Italia circa 650 mila soldati.

Il 9 settembre la caserma in cui Papagni era di stanza fu circondata dai tedeschi che, al diniego di partecipare al loro fianco, lo "caricarono" sul treno diretto in uno dei tanti campi di lavoro coatto creati proprio per i militari italiani che rifiutavano di collaborare alla guerra al fianco dei nazifascisti.
Iniziò così il suo "lavoro". Destinazione, un campo ubicato a Iserlohn nella regione del Palatinato settentrionale/Vestfalia. Giuseppe Papagni fu spedito in un grande stabilimento metalmeccanico a Menden, a pochi chilometri dal campo. Ci racconta che lavoravano circa 2000 persone con una grande varietà di nazionalità: italiani, jugoslavi e russi.
Le giornate erano scandite da un duro lavoro. I ricordi di quel periodo sono un po' sbiaditi, ma alcune cose in modo particolare gli sovvengono in modo chiaro, come per esempio il cibo razionato ma presente, una vivibilità al limite del decente ma dignitosa e dopo circa sei mesi, quando passarono allo status di civili, rammenta di una paghetta che gli consentiva di comprare qualche bibita e del pane la domenica, unico giorno di riposo.

I soldati tedeschi apostrofavano gli italiani con l'epiteto di "badogliani". Il Papagni ricorda di aver ricevuto anche un invito a lasciare lo status di lavoratore coatto e di lottare con i tedeschi. Ma lui rifiutò e preferì restare lì nel campo con gli altri italiani sino alla desiderata liberazione.
Ovviamente ci racconta che spesso si completava la cena andando nei campi a "rubare patate o carote" disperse nei terreni o sottraendo altro cibo dal magazzino della fabbrica. La lingua rappresentava un grande ostacolo, ma una parola la ricorda ancora oggi: essen che in tedesco significa mangiare, esigenza primaria e fondamentale in quella circostanza.

Ripercorrendo il foglio matricolare, la sua permanenza si concluse con la liberazione, da parte degli americani, del campo di lavoro. Papagni rammenta la Croce Rossa con i pacchi di viveri e i circa 30 giorni di permanenza prima del rimpatrio avvenuto in camion e poi in treno e terminato a Barletta il 28 agosto del 1945.

La semplicità di Giuseppe Papagni e il modo con il quale ancora ricorda alcuni particolari sono sorprendenti, come la punizione ricevuta per non aver compreso un ordine in tedesco, ma in generale le sue condizioni di salute, vista anche la giovane età, erano buone. In quei due anni non ebbe malattie o ferite e le condizioni in fabbrica erano certamente migliori di altri lavori all'esterno, al freddo o vessati dai soldati di turno.
Al ritorno in patria, il biscegliese non ricorda una calda accoglienza da parte dei propri concittadini. Infatti, testimoniato da più parti, questi nostri soldati internati spesso venivano tacciati di "imboscati" dai partigiani e traditori dai "fascisti" per non aver accettato di lottare al loro fianco nella neonata Repubblica fantoccio di Salò.

Tardivo ma importante è il riconoscimento di queste "storie" che hanno trovato una vera e svolta nella legge 296 del 27 dicembre del 2006 durante la presidenza Ciampi e Governo Prodi bis. Riconoscimento confermato poi dalle ricerche seguite, subito dopo il 2006.

Giuseppe Papagni non ha sempre raccontato questi episodi, il lavoro coatto e il sacrificio per aver detto no alle lusinghe nazifasciste. Per questo lo ringraziamo e gli diamo appuntamento alla presentazione di un importante libro sugli Imi proprio a Bisceglie a Libri nel Borgo antico. Perché è importante ricordare ma è dovere capire cosa sia stata quella pagina così nera della nostra storia di italiani, oggi liberi e antifascisti grazie anche a loro.
A noi, biscegliesi, dunque, il compito di mantenere viva la memoria di queste testimonianze audaci e, gli Imi, persone che alla proposta di aggregarsi alle fila dei nazifascisti coraggiosamente rifiutarono pagandone le conseguenze».

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