Alle porte dell'est
Dolce Montenegro
Il voto nel piccolo paese dirimpettaio registra la prima sconfitta di Milo Djukanovic, l'ultimo leader del periodo jugoslavo ancora al potere
giovedì 3 settembre 2020
La cattiva abitudine dei media italiani di dedicare pochissimo spazio a qualsiasi avvenimento di rilievo relativo a stati esteri che non siano quelli ritenuti più interessanti per il pubblico non ha certo risparmiato l'analisi del voto legislativo che si è tenuto domenica 30 agosto in una nazione che, malgrado sia fra le meno popolose d'Europa, riveste un'importanza strategica notevole per gli equilibri geopolitici del Vecchio Continente, è peraltro dirimpettaia dell'Italia e ha un rapporto molto particolare proprio con la Puglia.
Il Montenegro è quel pezzettino della ex Jugoslavia che abbiamo sempre avvertito molto vicino, pur se da queste parti è doveroso tenere conto del legame speciale tra il territorio della Bat e alcuni noti comuni costieri della Croazia: come dimenticare la regata velica Trani-Dubrovnik o la storica apertura del Divinæ Follie di Bisceglie sempre in quella città che ai tempi della dominazione veneziana era stata chiamata Ragusa?
Questa rubrica - pubblicata a intermittenza a causa degli impegni che ne impediscono una sua chiara periodicità - è lo spazio nel quale l'autore si riserva la possibilità di spiegare ai lettori biscegliesi e del territorio (specie ai più giovani) che c'è vita oltre le sponde italiane del mare Adriatico.
Gli elettori montenegrini (409 mila quelli andati alle urne, pari a quasi il 77% degli aventi diritto) hanno deciso, per la prima volta nel trentennio seguito alla dissoluzione dello stato federale jugoslavo, di non concedere la maggioranza assoluta dei seggi nell'Assemblea (il parlamento monocamerale) al Dps, il Partito democratico dei socialisti guidato dal 58enne Milo Djukanovic.
La sua storia è riassumibile in un dato di fatto eloquente: nessun altro protagonista politico già sulla cresta dell'onda negli anni della dissoluzione della Jugoslavia è rimasto attivo così a lungo. Il serbo Slobodan Milosevic è morto nel 2006, il croato Franjo Tudjman ancora prima (nel 1999), il bosniaco Alija Izetbegović è passato a miglior vita nel 2003, i leader sloveni e macedoni dell'epoca sono scomparsi presto dalla circolazione. Djukanovic, capo della lega dei comunisti del Montenegro dal 1990, ha attraversato indenne 30 anni resistendo al potere anche più del contestatissimo Lukashenko che di fatto guida la Bielorussia dal 1994.
Camaleonte come pochi, Djukanovic è stato alla testa di oltre 600 mila montenegrini durante le fasi più tragiche delle guerre civili, si è distinto per la disinvoltura con cui ha prima giocato di squadra con Milosevic condividendo il governo della nuova Jugoslavia in "formato ridotto" e in seguito scaricandolo senza mezzi termini, non senza aver resistito anche ai pesantissimi bombardamenti su Podgorica (che fino al 1992 si chiamava Titograd in onore del defunto maresciallo Tito) da parte di quella stessa Nato nella quale ha fatto entrare il suo Paese nel 2017. Una vita contrassegnata da atteggiamenti incoerenti e spregiudicati: come altro definire l'esistenza di uno Stato bifronte (Serbia e Montenegro) con una parte del territorio caratterizzata dall'uso prima del marco tedesco e quindi dell'euro quale moneta ufficiale al posto del dinaro?
Colta nel 2006 l'opportunità di separarsi dai serbi, privando di fatto dello sbocco sul mare la repubblica più popolosa della ex Jugoslavia, il leader montenegrino ha accentuato - specie negli ultimi anni - il processo di integrazione verso l'ingresso nell'Unione Europea (i negoziati sono aperti dal 2008) e nel Patto Atlantico (operazione riuscita). Quanto questo nuovo orientamento possa essere stato gradito dalla Russia di Vladimir Putin è facile immaginare...
La figura di Milo Djukanovic è stata associata in Italia alle vicende giudiziarie che lo hanno riguardato nel passato. Sospetti piuttosto pesanti ma mai dimostrati, quelli indirizzati a suo carico dalle procure di Bari e Napoli: legami personali e politici con presunti protagonisti del contrabbando di tabacco. Casi chiusi nel 2009.
Il rapporto tra Puglia e Montenegro, in particolare, è sempre stato piuttosto intenso. Un culto religioso molto sentito lega Bisceglie, Adelfia e Cattaro: la cattedrale della città montenegrina è infatti dedicata a San Trifone e conserva la testa e parte del corpo del santo. La Confraternita Marinereza di Kotor (Cattaro) comprò nell'anno 809 il corpo di Trifone da marinai veneziani decisi a riportare le reliquie trafugate a Costantinopoli. La nave si fermò a Rose, all'entrata del golfo di Cattaro e secondo la tradizione religiosa le pessime condizioni meteo che impedirono la ripartenza del veliero corrisposero all'espressione della volontà del santo di restare per sempre a Cattaro.
Djukanovic evidentemente non ha potuto ricorrere più di tanto alla fede, dato che all'origine del risultato sotto le aspettative che ha fruttato al Dps il 35% dei voti e solo 30 seggi su 81 in assemblea c'è anche la fragorosa rottura con la chiesa ortodossa serba, impegnata in prima linea nel supporto alla coalizione avversa "Per il futuro del Montenegro" che ha conquistato il 32.5% e 27 parlamentari: un risultato che, sommato a quelli dei liberali e filoeuropeisti "La pace è la nostra nazione" e dei verdi consentirebbe alle opposizioni di formare, per la prima volta dall'inizio degli anni '90, un governo contrario all'uomo forte di Podgorica, primo ministro per ben sette volte e presidente della repubblica al secondo mandato.
La riforma della legge sulla gestione dei beni del clero (col Governo che si è dato la facoltà di confiscare terreni e luoghi per cui non sia possibile provare i diritti di proprietà) ha causato una frana di consensi da parte dell'elettorato più vicino alla chiesa: sufficiente, per ora, a impedire al partito del camaleonte di continuare a governare da solo. Le cancellerie dell'Europa occidentale non hanno gradito più di tanto l'esito della tornata elettorale montenegrina: mentre i suoi detrattori descrivono Djukanovic alla stregua di un satrapo a fine corso, per diversi diplomatici di stati dell'Unione Europea la sua uscita di scena corrisponderebbe al preludio di una futura alleanza sull'asse Podgorica-Belgrado-Mosca, col possibile coronamento degli interessi economici e geopolitici russi a un approdo - seppure indiretto - sulle sponde dell'Adriatico. E questo, il buon Milo, lo sa bene.
Mai così centrato è l'interrogativo con cui Francesco Battistini ha lasciato i suoi lettori in un fondo apparso sul Corriere della Sera: «I montenegrini pregano come i serbi e scrivono come i russi. Ragioneranno da atlantici ed europei?». Parte della risposta, sembra evidente, sarà data dal comportamento dell'Europa nei confronti dell'ultimo vero leader jugoslavo ancora in piedi.
Il Montenegro è quel pezzettino della ex Jugoslavia che abbiamo sempre avvertito molto vicino, pur se da queste parti è doveroso tenere conto del legame speciale tra il territorio della Bat e alcuni noti comuni costieri della Croazia: come dimenticare la regata velica Trani-Dubrovnik o la storica apertura del Divinæ Follie di Bisceglie sempre in quella città che ai tempi della dominazione veneziana era stata chiamata Ragusa?
Questa rubrica - pubblicata a intermittenza a causa degli impegni che ne impediscono una sua chiara periodicità - è lo spazio nel quale l'autore si riserva la possibilità di spiegare ai lettori biscegliesi e del territorio (specie ai più giovani) che c'è vita oltre le sponde italiane del mare Adriatico.
Gli elettori montenegrini (409 mila quelli andati alle urne, pari a quasi il 77% degli aventi diritto) hanno deciso, per la prima volta nel trentennio seguito alla dissoluzione dello stato federale jugoslavo, di non concedere la maggioranza assoluta dei seggi nell'Assemblea (il parlamento monocamerale) al Dps, il Partito democratico dei socialisti guidato dal 58enne Milo Djukanovic.
La sua storia è riassumibile in un dato di fatto eloquente: nessun altro protagonista politico già sulla cresta dell'onda negli anni della dissoluzione della Jugoslavia è rimasto attivo così a lungo. Il serbo Slobodan Milosevic è morto nel 2006, il croato Franjo Tudjman ancora prima (nel 1999), il bosniaco Alija Izetbegović è passato a miglior vita nel 2003, i leader sloveni e macedoni dell'epoca sono scomparsi presto dalla circolazione. Djukanovic, capo della lega dei comunisti del Montenegro dal 1990, ha attraversato indenne 30 anni resistendo al potere anche più del contestatissimo Lukashenko che di fatto guida la Bielorussia dal 1994.
Camaleonte come pochi, Djukanovic è stato alla testa di oltre 600 mila montenegrini durante le fasi più tragiche delle guerre civili, si è distinto per la disinvoltura con cui ha prima giocato di squadra con Milosevic condividendo il governo della nuova Jugoslavia in "formato ridotto" e in seguito scaricandolo senza mezzi termini, non senza aver resistito anche ai pesantissimi bombardamenti su Podgorica (che fino al 1992 si chiamava Titograd in onore del defunto maresciallo Tito) da parte di quella stessa Nato nella quale ha fatto entrare il suo Paese nel 2017. Una vita contrassegnata da atteggiamenti incoerenti e spregiudicati: come altro definire l'esistenza di uno Stato bifronte (Serbia e Montenegro) con una parte del territorio caratterizzata dall'uso prima del marco tedesco e quindi dell'euro quale moneta ufficiale al posto del dinaro?
Colta nel 2006 l'opportunità di separarsi dai serbi, privando di fatto dello sbocco sul mare la repubblica più popolosa della ex Jugoslavia, il leader montenegrino ha accentuato - specie negli ultimi anni - il processo di integrazione verso l'ingresso nell'Unione Europea (i negoziati sono aperti dal 2008) e nel Patto Atlantico (operazione riuscita). Quanto questo nuovo orientamento possa essere stato gradito dalla Russia di Vladimir Putin è facile immaginare...
La figura di Milo Djukanovic è stata associata in Italia alle vicende giudiziarie che lo hanno riguardato nel passato. Sospetti piuttosto pesanti ma mai dimostrati, quelli indirizzati a suo carico dalle procure di Bari e Napoli: legami personali e politici con presunti protagonisti del contrabbando di tabacco. Casi chiusi nel 2009.
Il rapporto tra Puglia e Montenegro, in particolare, è sempre stato piuttosto intenso. Un culto religioso molto sentito lega Bisceglie, Adelfia e Cattaro: la cattedrale della città montenegrina è infatti dedicata a San Trifone e conserva la testa e parte del corpo del santo. La Confraternita Marinereza di Kotor (Cattaro) comprò nell'anno 809 il corpo di Trifone da marinai veneziani decisi a riportare le reliquie trafugate a Costantinopoli. La nave si fermò a Rose, all'entrata del golfo di Cattaro e secondo la tradizione religiosa le pessime condizioni meteo che impedirono la ripartenza del veliero corrisposero all'espressione della volontà del santo di restare per sempre a Cattaro.
Djukanovic evidentemente non ha potuto ricorrere più di tanto alla fede, dato che all'origine del risultato sotto le aspettative che ha fruttato al Dps il 35% dei voti e solo 30 seggi su 81 in assemblea c'è anche la fragorosa rottura con la chiesa ortodossa serba, impegnata in prima linea nel supporto alla coalizione avversa "Per il futuro del Montenegro" che ha conquistato il 32.5% e 27 parlamentari: un risultato che, sommato a quelli dei liberali e filoeuropeisti "La pace è la nostra nazione" e dei verdi consentirebbe alle opposizioni di formare, per la prima volta dall'inizio degli anni '90, un governo contrario all'uomo forte di Podgorica, primo ministro per ben sette volte e presidente della repubblica al secondo mandato.
La riforma della legge sulla gestione dei beni del clero (col Governo che si è dato la facoltà di confiscare terreni e luoghi per cui non sia possibile provare i diritti di proprietà) ha causato una frana di consensi da parte dell'elettorato più vicino alla chiesa: sufficiente, per ora, a impedire al partito del camaleonte di continuare a governare da solo. Le cancellerie dell'Europa occidentale non hanno gradito più di tanto l'esito della tornata elettorale montenegrina: mentre i suoi detrattori descrivono Djukanovic alla stregua di un satrapo a fine corso, per diversi diplomatici di stati dell'Unione Europea la sua uscita di scena corrisponderebbe al preludio di una futura alleanza sull'asse Podgorica-Belgrado-Mosca, col possibile coronamento degli interessi economici e geopolitici russi a un approdo - seppure indiretto - sulle sponde dell'Adriatico. E questo, il buon Milo, lo sa bene.
Mai così centrato è l'interrogativo con cui Francesco Battistini ha lasciato i suoi lettori in un fondo apparso sul Corriere della Sera: «I montenegrini pregano come i serbi e scrivono come i russi. Ragioneranno da atlantici ed europei?». Parte della risposta, sembra evidente, sarà data dal comportamento dell'Europa nei confronti dell'ultimo vero leader jugoslavo ancora in piedi.