Alle porte dell'est
Il muro di Angela e il nostro futuro
L'ultimo 9 novembre della donna che ha guidato il Paese più ricco d'Europa per 16 lunghi anni
martedì 9 novembre 2021
0.18
Qualunque sia l'opinione di ciascuno sull'operato e il grado di empatia personale suscitato, è certo che il suo nome resterà scolpito nella storia come quello di poche altre donne dell'età contemporanea. Fra poco completerà il lungo passo d'addio annunciato da tempo, dopo aver guidato di fatto il Paese più ricco d'Europa per 16 anni, appena dodici in meno rispetto ai 28 trascorsi dal 13 agosto 1961 al 9 novembre 1989.
È innegabile che faccia un certo effetto immaginare la Germania privata del carisma e della leadership di Angela Merkel, la vera dominatrice dello scacchiere politico continentale di questo inizio di secolo. La sensazione diviene ancora più alienante in occasione del 32esimo anniversario dell'evento che ha segnato un'epoca: la caduta del muro di Berlino.
Merkel ha raccontato più volte come visse quelle ore di fervente entusiasmo collettivo: in sauna. Un episodio emblematico, a pensarci bene: mentre la stragrande maggioranza dei cittadini della Ddr, incantata dalle prospettive di una nuova vita, era in festa per le strade di una Berlino virtualmente già riunificata e delle altre città della Germania orientale, lei, non ancora das Mädchen (la ragazza) ma "semplicemente" una ricercatrice dell'Istituto centrale per la chimica fisica dell'Accademia delle Scienze, era altrove. Non sulle barricate, non alle manifestazioni popolari che tra settembre e ottobre, tra Berlino est, Lipsia, Dresda, Erfurt, Rostock e Karl-Marx-Stadt richiamarono decine di migliaia di cittadini tedesco-orientali e furono oggetto delle ultime repressioni dei Vopos.
Quella sua estraneità, almeno iniziale, alle iniziative del gruppo "Il popolo siamo noi" le ha probabilmente garantito i successi futuri: nessuno si è occupato di lei in quei mesi dominati dalla confusione e dalla più scandalosa liquidazione possibile di una nazione non in condizioni di guerra. Non c'è mai stato, infatti, un referendum confermativo attraverso il quale i tedeschi dell'est si siano potuti esprimere democraticamente sulla volontà di riunificarsi o magari sull'opzione di restare federati in due Stati distinti e non si può certo continuare a confondere la volontà di buttare giù il muro e cacciare a calci nel sedere i vecchi tromboni della Sed con la deriva di un'annessione senza condizioni alla Germania occidentale. I presunti legami di Angela Merkel e della sua famiglia con la nomenclatura e il regime di Ubricht prima e Honecker poi non sono mai stati nè provati nè del tutto smentiti.
Molti dimenticano (o non conoscono) l'incredibile episodio che favorì l'ascesa definitiva dell'ormai non più Mädchen al governo. La campagna elettorale per le politiche del 2005 fu scossa da una frase: «Non posso accettare che sia di nuovo la Germania Est a decidere chi sarà il prossimo cancelliere. Non si può permettere che della gente frustrata determini le sorti della Germania». La geniale affermazione fu proferita da Edmund Stoiber, il potentissimo presidente della Baviera (la regione di Monaco, per intenderci, che da sola vale il doppio delle economie di Portogallo e Grecia messe insieme) che nel 2002 perse le elezioni per poche migliaia di voti e con quelle brillanti parole perse ogni possibilità di giocare un qualsiasi ruolo sia nell'esecutivo che all'interno della Cdu, il partito di centrodestra d'ispirazione cristiana che fra l'altro proprio in Baviera si chiama Csu (acronimo di unione cristiano sociale). E quale migliore garanzia per l'intero Paese, a quel punto, di una donna nata e cresciuta nella parte orientale, per giunta ritenuta un'allieva dell'artefice della riunificazione Helmut Kohl?
Il resto è consegnato ai nostri ricordi più freschi. La Germania, per i cittadini europei, è come la Juventus per gli appassionati italiani di calcio: non ti può essere indifferente, sei trascinato dagli eventi a simpatizzare o antipatizzare per lei. E Angela Merkel, in questa dicotomia, l'ha rappresentata perfettamente al punto che qualsiasi alternativa, oggi, ci pare inevitabilmente sbiadita e di secondo piano. Ma i tedeschi, a differenza di altri popoli del vecchio continente, hanno sempre pescato un coniglio dal cilindro tutte le volte che sono sembrati privi di una guida autorevole: successe quando parve impossibile rimpiazzare Konrad Adenauer, e venne Willy Brandt, e anche con Helmut Schmidt, continuare dell'Ostpolitik, cui seguì Kohl. Il muro di Angela, ovvero quell'algido esercizio di leadership senza alcuna concessione all'emotività, ci sembra adesso crollato miseramente e le rovine del crollo non sono dissimili da quelle, gioiose, delle picconate assestate in vari punti dei 156 km del muro di Berlino la notte del 9 novembre di 32 anni fa.
E se il nuovo numero uno europeo esistesse ma non fosse tedesco? Qualcuno potrebbe cominciare seriamente a credere che, questa volta, il coniglio dal cilindro l'abbiano pescato gli italiani con Mario Draghi. Il difficile, nel qual caso, sarebbe spiegarlo proprio ai cittadini del Bel Paese, abituati alle personalità sbiadite da così tanto tempo che bisogna tornare indietro a quando il muro di Berlino c'era ancora e Giulio Andreotti (un gigante in confronto a "quelli di oggi") assestò una delle sue freddure più riuscite: «Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due».
È innegabile che faccia un certo effetto immaginare la Germania privata del carisma e della leadership di Angela Merkel, la vera dominatrice dello scacchiere politico continentale di questo inizio di secolo. La sensazione diviene ancora più alienante in occasione del 32esimo anniversario dell'evento che ha segnato un'epoca: la caduta del muro di Berlino.
Merkel ha raccontato più volte come visse quelle ore di fervente entusiasmo collettivo: in sauna. Un episodio emblematico, a pensarci bene: mentre la stragrande maggioranza dei cittadini della Ddr, incantata dalle prospettive di una nuova vita, era in festa per le strade di una Berlino virtualmente già riunificata e delle altre città della Germania orientale, lei, non ancora das Mädchen (la ragazza) ma "semplicemente" una ricercatrice dell'Istituto centrale per la chimica fisica dell'Accademia delle Scienze, era altrove. Non sulle barricate, non alle manifestazioni popolari che tra settembre e ottobre, tra Berlino est, Lipsia, Dresda, Erfurt, Rostock e Karl-Marx-Stadt richiamarono decine di migliaia di cittadini tedesco-orientali e furono oggetto delle ultime repressioni dei Vopos.
Quella sua estraneità, almeno iniziale, alle iniziative del gruppo "Il popolo siamo noi" le ha probabilmente garantito i successi futuri: nessuno si è occupato di lei in quei mesi dominati dalla confusione e dalla più scandalosa liquidazione possibile di una nazione non in condizioni di guerra. Non c'è mai stato, infatti, un referendum confermativo attraverso il quale i tedeschi dell'est si siano potuti esprimere democraticamente sulla volontà di riunificarsi o magari sull'opzione di restare federati in due Stati distinti e non si può certo continuare a confondere la volontà di buttare giù il muro e cacciare a calci nel sedere i vecchi tromboni della Sed con la deriva di un'annessione senza condizioni alla Germania occidentale. I presunti legami di Angela Merkel e della sua famiglia con la nomenclatura e il regime di Ubricht prima e Honecker poi non sono mai stati nè provati nè del tutto smentiti.
Molti dimenticano (o non conoscono) l'incredibile episodio che favorì l'ascesa definitiva dell'ormai non più Mädchen al governo. La campagna elettorale per le politiche del 2005 fu scossa da una frase: «Non posso accettare che sia di nuovo la Germania Est a decidere chi sarà il prossimo cancelliere. Non si può permettere che della gente frustrata determini le sorti della Germania». La geniale affermazione fu proferita da Edmund Stoiber, il potentissimo presidente della Baviera (la regione di Monaco, per intenderci, che da sola vale il doppio delle economie di Portogallo e Grecia messe insieme) che nel 2002 perse le elezioni per poche migliaia di voti e con quelle brillanti parole perse ogni possibilità di giocare un qualsiasi ruolo sia nell'esecutivo che all'interno della Cdu, il partito di centrodestra d'ispirazione cristiana che fra l'altro proprio in Baviera si chiama Csu (acronimo di unione cristiano sociale). E quale migliore garanzia per l'intero Paese, a quel punto, di una donna nata e cresciuta nella parte orientale, per giunta ritenuta un'allieva dell'artefice della riunificazione Helmut Kohl?
Il resto è consegnato ai nostri ricordi più freschi. La Germania, per i cittadini europei, è come la Juventus per gli appassionati italiani di calcio: non ti può essere indifferente, sei trascinato dagli eventi a simpatizzare o antipatizzare per lei. E Angela Merkel, in questa dicotomia, l'ha rappresentata perfettamente al punto che qualsiasi alternativa, oggi, ci pare inevitabilmente sbiadita e di secondo piano. Ma i tedeschi, a differenza di altri popoli del vecchio continente, hanno sempre pescato un coniglio dal cilindro tutte le volte che sono sembrati privi di una guida autorevole: successe quando parve impossibile rimpiazzare Konrad Adenauer, e venne Willy Brandt, e anche con Helmut Schmidt, continuare dell'Ostpolitik, cui seguì Kohl. Il muro di Angela, ovvero quell'algido esercizio di leadership senza alcuna concessione all'emotività, ci sembra adesso crollato miseramente e le rovine del crollo non sono dissimili da quelle, gioiose, delle picconate assestate in vari punti dei 156 km del muro di Berlino la notte del 9 novembre di 32 anni fa.
E se il nuovo numero uno europeo esistesse ma non fosse tedesco? Qualcuno potrebbe cominciare seriamente a credere che, questa volta, il coniglio dal cilindro l'abbiano pescato gli italiani con Mario Draghi. Il difficile, nel qual caso, sarebbe spiegarlo proprio ai cittadini del Bel Paese, abituati alle personalità sbiadite da così tanto tempo che bisogna tornare indietro a quando il muro di Berlino c'era ancora e Giulio Andreotti (un gigante in confronto a "quelli di oggi") assestò una delle sue freddure più riuscite: «Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due».