Buongiorno
Click baiting, fake news... e Magritte
La cattiva abitudine di fermarsi al titolo senza leggere l'articolo, il malvezzo di usare parole mai pronunciate per attirare la curiosità degli utenti
sabato 2 maggio 2020
0.05
«I tri quarti di quelli che accattano i giornali, si leggino sulo i titoli che spisso, e questa è 'na bella usanza tutta taliàna, dicino 'na cosa opposta a quello che dici l'articolo». Così parlò Andrea Camilleri, scomparso lo scorso luglio.
Negare che una fetta cospicua degli utenti, specie sul web, si fermi purtroppo a una rapida visualizzazione dei titoli senza approfondire la lettura degli articoli sarebbe inutile. Il titolo dell'articolo rappresenta, per una quota non trascurabile dei fruitori dell'informazione (specie dei nuovi), l'unica forma di accesso a una notizia che si crede - spesso erroneamente - di aver appreso.
Trovare un punto di equilibrio, nella fase di costruzione dei titoli (e dei sottotitoli), tra le regole giornalistiche e le esigenze del Seo - la temuta procedura di ottimizzazione dei contenuti sui motori di ricerca - è molto difficile, specie ora, nell'epoca del famigerato click baiting.
Uno dei compiti più complicati è quello di riassumere, nel titolo, le dichiarazioni di politici, opinionisti, sportivi, personaggi dello spettacolo. E qui entra in gioco, talvolta, il malvezzo rimarcato dal compianto scrittore siciliano: capita di trovare - tra le virgolette caporali - parole, espressioni e intere frasi di senso compiuto che il protagonista della storia non ha mai pronunciato o scritto.
I più attenti, in queste settimane, hanno notato l'utilizzo decisamente disinvolto, quando non fantasioso, di titoli rivelatisi del tutto fuorvianti rispetto ai contenuti delle notizie proposte. È l'ultima frontiera del meccanismo deprecabile di fabbricazione delle fake news: una variante "pigra", che si limita allo "strillo".
L'emergenza Coronavirus ha prodotto un incremento spaventoso della quantità di informazioni messe a disposizione di un numero di lettori cresciuto esponenzialmente, fino a toccare quote inimmaginabili. Lo dimostrano i dati, inequivocabili, diffusi su scala mondiale. La platea degli utenti è più vasta, fa gola a tutti, e pazienza se raggiungerla dovesse andare a discapito dei contenuti di qualità, della verifica delle fonti, della ricerca dei dati, della cura dei testi. C'è chi scommette sull'incapacità del pubblico di riconoscere le differenze tra diversi modi di fare giornalismo e sull'abusato modo di dire «Sono tutti uguali».
Mi è tornato alla mente uno dei tanti casi di specie che i maestri raccontavano per aiutare a comprendere meglio alcune sfaccettature della professione e qualche volta ho utilizzato tra gli esempi nel corso delle divertenti conversazioni con le scolaresche, che mi mancano parecchio, lo ammetto...
La popolare giornalista televisiva statunitense Lesley Stahl, nel 1984, decise di realizzare e mandare in onda sulla Cbs un servizio di quasi sei minuti fortemente critico nei confronti del presidente Ronald Reagan. La sua scelta fu chiara: giocare sulla contrapposizione tra le immagini mostrate e il testo. Le contestazioni dell'anchorwoman nei confronti dell'operato di Reagan furono così accompagnate da spezzoni nei quali il presidente era ritratto allegro e sorridente, a contatto con bambini e anziani e fiero di sé in occasione di eventi pubblici.
I dirigenti dell'emittente temevano, anzi erano convinti, di ricevere telefonate di protesta da parte di sostenitori repubblicani e componenti dello staff presidenziale. La prima chiamata fu in effetti quella di un alto funzionario dell'amministrazione: «Congratulazioni. Ottimo servizio. Ci avete fornito, in piena campagna elettorale, qualche minuto di splendide immagini del presidente». Mike Deaver, capo della comunicazione della Casa Bianca, spiegò per quale motivo fossero - sorprendentemente - soddisfatti di quel pezzo così antipatizzante: «Com'è ovvio, la gente non ha fatto caso ai ragionamenti e alle critiche, ma ha guardato le belle immagini girate dalla nostra troupe».
Siamo davvero ridotti in queste condizioni?
Il pubblico non è in grado di distinguere tra giornalisti e maniaci del "copia e incolla"?
I lettori non fanno caso a coloro che continuano, imperterriti, a seviziare la lingua italiana scrivendo "un'amico", "andiamo ha casa", "io è te"?
L'impressione è che la situazione sia molto grave ma, in questo caso, mi piace pensarla come Magritte.
Negare che una fetta cospicua degli utenti, specie sul web, si fermi purtroppo a una rapida visualizzazione dei titoli senza approfondire la lettura degli articoli sarebbe inutile. Il titolo dell'articolo rappresenta, per una quota non trascurabile dei fruitori dell'informazione (specie dei nuovi), l'unica forma di accesso a una notizia che si crede - spesso erroneamente - di aver appreso.
Trovare un punto di equilibrio, nella fase di costruzione dei titoli (e dei sottotitoli), tra le regole giornalistiche e le esigenze del Seo - la temuta procedura di ottimizzazione dei contenuti sui motori di ricerca - è molto difficile, specie ora, nell'epoca del famigerato click baiting.
Uno dei compiti più complicati è quello di riassumere, nel titolo, le dichiarazioni di politici, opinionisti, sportivi, personaggi dello spettacolo. E qui entra in gioco, talvolta, il malvezzo rimarcato dal compianto scrittore siciliano: capita di trovare - tra le virgolette caporali - parole, espressioni e intere frasi di senso compiuto che il protagonista della storia non ha mai pronunciato o scritto.
I più attenti, in queste settimane, hanno notato l'utilizzo decisamente disinvolto, quando non fantasioso, di titoli rivelatisi del tutto fuorvianti rispetto ai contenuti delle notizie proposte. È l'ultima frontiera del meccanismo deprecabile di fabbricazione delle fake news: una variante "pigra", che si limita allo "strillo".
L'emergenza Coronavirus ha prodotto un incremento spaventoso della quantità di informazioni messe a disposizione di un numero di lettori cresciuto esponenzialmente, fino a toccare quote inimmaginabili. Lo dimostrano i dati, inequivocabili, diffusi su scala mondiale. La platea degli utenti è più vasta, fa gola a tutti, e pazienza se raggiungerla dovesse andare a discapito dei contenuti di qualità, della verifica delle fonti, della ricerca dei dati, della cura dei testi. C'è chi scommette sull'incapacità del pubblico di riconoscere le differenze tra diversi modi di fare giornalismo e sull'abusato modo di dire «Sono tutti uguali».
Mi è tornato alla mente uno dei tanti casi di specie che i maestri raccontavano per aiutare a comprendere meglio alcune sfaccettature della professione e qualche volta ho utilizzato tra gli esempi nel corso delle divertenti conversazioni con le scolaresche, che mi mancano parecchio, lo ammetto...
La popolare giornalista televisiva statunitense Lesley Stahl, nel 1984, decise di realizzare e mandare in onda sulla Cbs un servizio di quasi sei minuti fortemente critico nei confronti del presidente Ronald Reagan. La sua scelta fu chiara: giocare sulla contrapposizione tra le immagini mostrate e il testo. Le contestazioni dell'anchorwoman nei confronti dell'operato di Reagan furono così accompagnate da spezzoni nei quali il presidente era ritratto allegro e sorridente, a contatto con bambini e anziani e fiero di sé in occasione di eventi pubblici.
I dirigenti dell'emittente temevano, anzi erano convinti, di ricevere telefonate di protesta da parte di sostenitori repubblicani e componenti dello staff presidenziale. La prima chiamata fu in effetti quella di un alto funzionario dell'amministrazione: «Congratulazioni. Ottimo servizio. Ci avete fornito, in piena campagna elettorale, qualche minuto di splendide immagini del presidente». Mike Deaver, capo della comunicazione della Casa Bianca, spiegò per quale motivo fossero - sorprendentemente - soddisfatti di quel pezzo così antipatizzante: «Com'è ovvio, la gente non ha fatto caso ai ragionamenti e alle critiche, ma ha guardato le belle immagini girate dalla nostra troupe».
Siamo davvero ridotti in queste condizioni?
Il pubblico non è in grado di distinguere tra giornalisti e maniaci del "copia e incolla"?
I lettori non fanno caso a coloro che continuano, imperterriti, a seviziare la lingua italiana scrivendo "un'amico", "andiamo ha casa", "io è te"?
L'impressione è che la situazione sia molto grave ma, in questo caso, mi piace pensarla come Magritte.