Buongiorno
Il 7 giugno, fra Berlinguer e Petrović
Il blog di Vito Troilo
giovedì 7 giugno 2018
15.03
Il 7 giugno è una di quelle date che ogni appassionato di pallacanestro e nostalgico comunista vorrebbe stracciare dal calendario. Immaginate cosa possa significare per uno come me che risponde a entrambe le descrizioni.
34 anni fa, nel 1984, ebbe inizio a Padova, sul palco di piazza della frutta, la fine del sogno per milioni di italiani: il malore e, nel giro di pochi minuti, l'ictus che furono fatali a Enrico Berlinguer hanno segnato la storia del nostro paese e dell'Europa. Ricordare quell'inesorabile e struggente agonia, soprattutto per chi non ha avuto la possibilità di vivere gli anni di genuina passione politica e per la democrazia, diventa un dovere.
Ero un ragazzino, al contrario, quando in una calda serata del 1993 appresi dell'altrettanto tragica scomparsa dell'uomo che più mi ha sbalordito con un pallone a spicchi fra le mani. Si chiamava Dražen Petrović e se n'è andato giovanissimo, appena 28enne, a causa di un incidente avvenuto su una strada tedesca: l'auto guidata dalla sua fidanzata dell'epoca, che poi ha conosciuto e sposato l'ex calciatore Oliver Bierhoff, si scontrò con un camion.
Dražen ha incarnato, per milioni di giovani europei di un'intera generazione, la fame e il desiderio di riscatto, attraverso lo sport e la pallacanestro, di quelli che da piccoli sembrano non potercela fare: col duro e meticoloso lavoro, talvolta maniacale, ha presto schivato il paragone con un fratello già campione (Aza, che di Pesaro è stato giocatore e ora allena la nazionale brasiliana), si è affermato a livello giovanile nel piccolo club del Sibenik guadagnando a suon di canestri l'ingaggio nel Cibona Zagabria, la più forte formazione jugoslava di quel periodo e conquistando in fretta il rispetto dei suoi compagni in nazionale.
Ha fatto e vinto tanto: 112 punti all'Olimpia Lubiana nella prima giornata di Yuba Liga (in quel momento il terzo campionato più competitivo al mondo dopo l'Nba e la Serie A1 italiana), il titolo in patria e una Coppa Korac con la canotta del Real Madrid, al termine della finalissima di Atene con Caserta che resterà fra le più belle partite di basket mai giocate, gli Europei di casa nel 1989 (gli highlights della sfida decisiva con la Grecia dovrebbero essere dichiarati patrimonio dell'umanità) e i Mondiali dell'anno successivo in Argentina.
L'ho cercato inutilmente dalle tribune del PalaEur nel giugno del 1991, durante la fase finale dell'Europeo di Roma, canto del cigno dell'ultima Jugoslavia unita. L'ho ammirato in televisione, solo contro il Dream Team alle Olimpiadi di Barcellona del '92. «La cattiva sorte ce l'ha tolto» ha detto di lui Sergio Tavcar, voce storica di TeleCapodistria, nel corso di un incontro con Federico Buffa, forse il più grande narratore italiano del momento. «Da piccolo era brutto da vedere, non aveva assolutamente tiro: lo chiamavano "kamenko", ovvero pietraio perché le sue conclusioni non finivano mai a bersaglio. Ha concentrato tutta la sua personalità nella pallacanestro. All'età di 10 anni ha cominciato ad allenarsi per sette, otto, dieci ore al giorno, tutti i santi giorni. Aveva le chiavi della palestra, andava a tirare prima della scuola e tornava alle tre del pomeriggio dopo aver pranzato e fatto velocemente i compiti, restando fino a tarda serata». Un'etica del lavoro pazzesca. Enrico Campana, negli anni della direzione di "Superbasket", gli diede il soprannome col quale abbiamo imparato a conoscerlo: Mozart dei canestri.
Volevo tirare in corsa come lui, cambiare mano dietro la schiena come lui, poggiare il pallone al vetro come lui, palleggiare di destro (io che ero mancino) come lui... È stato il mio poster in cameretta, il mito sognato, il vincente ammirato. E quanto avrebbe potuto continuare a regalare al basket e allo sport mondiale.
In quest'epoca così frenetica, in questi giorni così difficili per chi come me lavora sulla stretta attualità, fermarsi a stendere un ricordo di questi due personaggi accomunati nel destino cinico e baro di una scomparsa prematura nel momento di massima espressione dei loro talenti e delle loro capacità ha qualcosa di catartico. Le storie di Enrico Berlinguer e Dražen Petrović sono evidentemente lontane, diverse, parallele eppure riescono a incontrarsi magicamente incrociando le passioni della gente. Ho deciso di raccontarne altre, su questo sito, in due nuovi spazi che a breve vedranno la luce: Sport Plus, che sarà la valvola di sfogo delle passioni e delle competenze a livelli superiori di coloro che compongono la nostra redazione sportiva e Alle porte dell'est, il blog che devo a me stesso.
P. S. Zagabria è una città meravigliosa. Se dovesse capitarvi di visitarla non dimenticate di fare un salto al Muzejsko Memorijalni Centar Dražen Petrović. L'amore della Croazia per il suo più grande sportivo di sempre è pareggiato solo dalla devozione dei brasiliani alla memoria di Ayrton Senna.
34 anni fa, nel 1984, ebbe inizio a Padova, sul palco di piazza della frutta, la fine del sogno per milioni di italiani: il malore e, nel giro di pochi minuti, l'ictus che furono fatali a Enrico Berlinguer hanno segnato la storia del nostro paese e dell'Europa. Ricordare quell'inesorabile e struggente agonia, soprattutto per chi non ha avuto la possibilità di vivere gli anni di genuina passione politica e per la democrazia, diventa un dovere.
Ero un ragazzino, al contrario, quando in una calda serata del 1993 appresi dell'altrettanto tragica scomparsa dell'uomo che più mi ha sbalordito con un pallone a spicchi fra le mani. Si chiamava Dražen Petrović e se n'è andato giovanissimo, appena 28enne, a causa di un incidente avvenuto su una strada tedesca: l'auto guidata dalla sua fidanzata dell'epoca, che poi ha conosciuto e sposato l'ex calciatore Oliver Bierhoff, si scontrò con un camion.
Dražen ha incarnato, per milioni di giovani europei di un'intera generazione, la fame e il desiderio di riscatto, attraverso lo sport e la pallacanestro, di quelli che da piccoli sembrano non potercela fare: col duro e meticoloso lavoro, talvolta maniacale, ha presto schivato il paragone con un fratello già campione (Aza, che di Pesaro è stato giocatore e ora allena la nazionale brasiliana), si è affermato a livello giovanile nel piccolo club del Sibenik guadagnando a suon di canestri l'ingaggio nel Cibona Zagabria, la più forte formazione jugoslava di quel periodo e conquistando in fretta il rispetto dei suoi compagni in nazionale.
Ha fatto e vinto tanto: 112 punti all'Olimpia Lubiana nella prima giornata di Yuba Liga (in quel momento il terzo campionato più competitivo al mondo dopo l'Nba e la Serie A1 italiana), il titolo in patria e una Coppa Korac con la canotta del Real Madrid, al termine della finalissima di Atene con Caserta che resterà fra le più belle partite di basket mai giocate, gli Europei di casa nel 1989 (gli highlights della sfida decisiva con la Grecia dovrebbero essere dichiarati patrimonio dell'umanità) e i Mondiali dell'anno successivo in Argentina.
L'ho cercato inutilmente dalle tribune del PalaEur nel giugno del 1991, durante la fase finale dell'Europeo di Roma, canto del cigno dell'ultima Jugoslavia unita. L'ho ammirato in televisione, solo contro il Dream Team alle Olimpiadi di Barcellona del '92. «La cattiva sorte ce l'ha tolto» ha detto di lui Sergio Tavcar, voce storica di TeleCapodistria, nel corso di un incontro con Federico Buffa, forse il più grande narratore italiano del momento. «Da piccolo era brutto da vedere, non aveva assolutamente tiro: lo chiamavano "kamenko", ovvero pietraio perché le sue conclusioni non finivano mai a bersaglio. Ha concentrato tutta la sua personalità nella pallacanestro. All'età di 10 anni ha cominciato ad allenarsi per sette, otto, dieci ore al giorno, tutti i santi giorni. Aveva le chiavi della palestra, andava a tirare prima della scuola e tornava alle tre del pomeriggio dopo aver pranzato e fatto velocemente i compiti, restando fino a tarda serata». Un'etica del lavoro pazzesca. Enrico Campana, negli anni della direzione di "Superbasket", gli diede il soprannome col quale abbiamo imparato a conoscerlo: Mozart dei canestri.
Volevo tirare in corsa come lui, cambiare mano dietro la schiena come lui, poggiare il pallone al vetro come lui, palleggiare di destro (io che ero mancino) come lui... È stato il mio poster in cameretta, il mito sognato, il vincente ammirato. E quanto avrebbe potuto continuare a regalare al basket e allo sport mondiale.
In quest'epoca così frenetica, in questi giorni così difficili per chi come me lavora sulla stretta attualità, fermarsi a stendere un ricordo di questi due personaggi accomunati nel destino cinico e baro di una scomparsa prematura nel momento di massima espressione dei loro talenti e delle loro capacità ha qualcosa di catartico. Le storie di Enrico Berlinguer e Dražen Petrović sono evidentemente lontane, diverse, parallele eppure riescono a incontrarsi magicamente incrociando le passioni della gente. Ho deciso di raccontarne altre, su questo sito, in due nuovi spazi che a breve vedranno la luce: Sport Plus, che sarà la valvola di sfogo delle passioni e delle competenze a livelli superiori di coloro che compongono la nostra redazione sportiva e Alle porte dell'est, il blog che devo a me stesso.
P. S. Zagabria è una città meravigliosa. Se dovesse capitarvi di visitarla non dimenticate di fare un salto al Muzejsko Memorijalni Centar Dražen Petrović. L'amore della Croazia per il suo più grande sportivo di sempre è pareggiato solo dalla devozione dei brasiliani alla memoria di Ayrton Senna.