Largo San Francesco deserto
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Buongiorno

La cosa giusta da fare

Rinunciare a un pizzico del nostro egoismo oggi potrà tornarci prezioso

È una guerra a un nemico invisibile e dalla durata indefinibile. Sul campo la possono combattere in pochi, pochissimi, mentre sono troppi coloro che corrono il rischio di aggravarne le conseguenze. L'emergenza Coronavirus, in fondo, è emblematica della fragilità del genere umano.

Tutti ne hanno parlato, talvolta a sproposito. Molti ne hanno scritto, avventurandosi in tecnicismi sconosciuti a loro stessi fino a poche settimane fa. E io, che scrivo per il giornale forte di una città dell'Italia meridionale, mi sono ritrovato, nel giro di poco tempo, ad accantonare le discussioni sulla tenuta della maggioranza consiliare, le candidature biscegliesi per le regionali, le percentuali al tiro di Cantagalli e Dri, il Bisceglie che rischia di retrocedere e le speranze olimpiche dei nostri sportivi di punta per occuparmi di una piaga che segnerà questo secolo.

E pensare che avrei voluto dedicare del tempo a portare avanti il progetto del mio primo libro - già, perché in questa città sono in pratica l'unico a non averne scritto uno - immaginando strategie e idee per l'estate e l'autunno. Ho dovuto persino sospendere la trasmissione con cui sono tornato a fare televisione, divertendomi. Eppure, in tutta sincerità, non riesco a sentirmi in ansia per questo. Se c'è una lezione che l'emergenza dovrebbe riuscire a impartirci, è che le priorità sono altre.

Non ho tanto paura del Coronavirus in sé quanto del Coronavirus in me. Non mi riferisco al timore del contagio - che solo uno stupido e incosciente potrebbe dichiarare di non avvertire - ma all'incertezza su quello che succederà dopo. L'Italia avrà ancora un'economia di mercato in grado di impedirci un tracollo? Le nostre istituzioni reggeranno l'urto e il peso di tali avvenimenti? Quale sarà il nostro futuro? Ci saranno ancora prospettive per i ragazzotti quasi quarantenni come me? E cosa potrà mai offrire il paese a chi ha la metà dei miei anni, ai miei adorati nipoti e ai figli dei miei amici?

Non conosco nessuna delle risposte a queste domande, e credo di essere in nutrita compagnia ma rifletto e faccio una considerazione, anche al costo di apparire inopportuno: gran parte del domani dell'Italia, per molti anni, lo decideremo coi nostri comportamenti da qui a poche settimane. Inconsciamente, ce ne siamo già resi conto: il peso della responsabilità è sul nostro groppone.

I biscegliesi hanno cambiato atteggiamento nel rapido volgere di 48 ore: mercoledì era forte la minimizzazione del senso dei provvedimenti assunti dal governo e ancora, giovedì, l'eccesso di cazzeggio degli idioti di tutte le età, mentre la gran parte della gente aveva già compreso la necessità di starsene a casa.
Venerdì, invece, qualcosa è cambiato: strade davvero vuote, almeno dal tardo pomeriggio in poi. Il weekend sarà decisivo per testare la nostra soglia di sopportazione, pur se è avvilente che di fronte a un pericolo di questa portata sia necessario bombardare continuamente con le esortazioni a non uscire. Mi ci metto anch'io: rinunciare alle abitudini, per uomo di 37 anni che ha praticato resilienza da prima ancora che fosse coniato un termine per descrivere quel tipo di atteggiamenti, non è facile.

Speriamo tanto che #iorestoacasa funzioni e nel frattempo ci scopriamo ottimisti, perché #andràtuttobene. Io vorrei solo che passasse, semplicemente, una constatazione empirica: restare a casa, mantenere le distanze, pazientare in queste settimane è la cosa giusta da fare.

Le guerre si vincono con la strategia e quella dell'umanità al Coronavirus ne ha una sola efficace: diradare i rischi di contagio nello spazio e nel tempo evitando di stare insieme per un po'. Ogni caso in meno accorcia quell'attesa, riduce i danni e avvicina la ripartenza.
Rinunciare a un pizzico del nostro egoismo oggi potrà tornarci prezioso. E ricominceremo a discutere in allegria dell'amministrazione che non si sa se cade, di Canonico che non si capisce se vuole tenersi il Bisceglie, dei Lions alle prese coi playoff, dei nostri alle Olimpiadi, ebbri di gioia come deficienti per il solo fatto di esserci ripresi la nostra amatissima normalità.
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