Il caffè del filosofo

La nostra mente è un cinematografo

Una riflessione filosofica sul nesso tra conoscenza e memoria

Interpretiamo il mondo con idee e concetti, ossia proiettiamo sullo schermo della coscienza il flusso continuo delle nostre esperienze, convogliando la vita nel filtro delle nostre facoltà. Scopriamo così di essere simili a una cinepresa che sogna di afferrare la realtà senza mai riuscirci del tutto.

Tentiamo un esperimento mentale. Concentriamo tutta la nostra attenzione sulla percezione della realtà (sensazioni, immagini, pensieri, ricordi, emozioni e così via), intesa come manifestazione del divenire (oggetti, persone, entità, fantasie che cambiano costantemente). Questo "divenire" consiste, secondo quanto sperimentiamo comunemente, in un mutare indeterminatamente: muta quanto percepiamo, pensiamo, desideriamo e così via. Ma cosa muta davvero? Parliamo di divenire ma non riusciamo a rappresentarcelo adeguatamente.

Eppure qualcosa sembra mutare. Vi è un qualcosa che descriviamo come un "qui e ora", che in un "prima" o in un "dopo" non è più, poichè muta. Osserviamo ancora più attentamente gli oggetti; la nostra percezione ce ne fornisce l'immagine (ovvero la nostra possibile relazione con essi, il nostro eventuale contatto con essi), e in questa immagine noi scorgiamo i "confini" dell'oggetto, il suo esprimersi o manifestarsi attraverso una fisionomia, un insieme di proprietà o specifici lineamenti. La nostra concentrazione scorge nelle cose una rappresentazione definita e delimitata, vale a dire una "forma". È la forma che effettivamente muta. L'oggetto si presenta nel tempo e nello spazio e la sua forma muta continuamente. Il divenire delle cose si presenta proprio in questo assumere forma per poi spezzarla, perderla per poi ritrovarne ancora un'altra. Cambiar forma è la continua e inarrestabile presenza del reale. E il cambiar forma è al contemp oun individuarsi in particolarità e differenze, un caratterizzarsi in elementi mutevoli e fugaci.

Opera dello spazio e del tempo, si diceva. Nondimeno, se il divenire è ciò che assume e perde forma, esso allo stesso tempo nega che la realtà si cristallizzi in una forma determinata, si arresti in una configurazione. Siamo soliti definire questo processo, nonché il prodotto del processo, col verbo "essere" la realtà è, il divenire è. Solo nell'essere, ossia in ciò che è in se stesso immutabile, il frazionamento operato dallo spazio e dal tempo risulta quantomai inefficace. Nell'essere in quanto essere non c'è individualità; la forma - non questa o quella forma, bensì la forma "in generale", la forma come concetto, – è costitutiva dell'essere, ed è già sottratta al tempo, poiché vive al di fuori della scansione temporale.

Verrebbe da chiedersi: che cos'è la forma pura (o "in generale")? La forma non è altro che un'istantanea presa su una transizione. È una fotografia scattata nel mezzo di un flusso di immagini, un'istantanea che blocca un momento nello scorrere indeterminato delle nostre esperienze. E cosa ci permette propriamente di essere "fotografi"? È il "sostantivo" a incarnare il concetto, svelando l'idea nella parola. Noi definiamo, delineamo, circoscriviamo, battezziamo le cose, gli oggetti. Il sostantivo, il nome, genera in qualche modo la realtà della cosa, la rende tangibile e le impone una forma, fissando in questo modo il suo proprio divenire. Osserviamo il mutamento continuo delle cose: la nostra intelligenza, incaricata di conoscere e comprendere, ossia di scoprire l'utilità o la validità delle cose per noi, necessita di nominare, ossia di identificare, il divenire per poterne parlare, per poterlo pensare e quindi conoscere. Gli attribuisce un nome e lo rende una cosa, trasforma un movimento in un stasi, una transizione di eventi in un caso determinato, permettendo alle cose di esseren ominate, pensate, descritte, conosciute. Pertanto la nostra intelligenza fissa il divenire in un'immagine dotata di contenuto intelligibile, ovverosia lo coglie come rappresentazione, poiché ritrova nell'informe la forma.
Ma il pensiero si spinge anche oltre e giunge a quel potenziamento del sostantivo che potremmo denominare il vero segreto dell'essere, il segreto del nostro esperimento. Scrive il filosofo francese Henri Bergson nel suo celebre volume del 1907, L'evoluzione creatrice:

La nostra percezione si adopera per solidificare in immagini discontinue la continuità fluida del reale. Quando le immagini in successione non differiscono troppo tra loro, noi le consideriamo tutte come l'accrescersi e il diminuire di una sola immagine media, o come la deformazione di questa immagine in sensi differenti. E quando parliamo dell' "essenza" di una cosa o della cosa stessa, noi pensiamo appunto a quella media.


Il passaggio dalla "forma" alla "essenza" è accessibile perchè ci muoviamo pur sempre all'interno dello spazio (quindi della materia, della percezione, dell'intelligenza e del linguaggio). In tal caso, tuttavia, la risposta alla domanda su cosa sia l'essere non può asserragliarsi all'interno del dominio della forma. La domanda contiene in realtà altre due prospettive di significato entro cui guardare al divenire trasformato in essere. Esse sono la "qualità" con cui pensiamo l'essere, e l' "atto" col quale l'essere sussite, ciò mediante cui possiamo scoprire una progettualità dell'essere e ricondurlo a una finalità. Qualità e attovanno dovranno aggiungersi alla forma/essenza. L'aggettivo e il verbo completano la frase. Soggetto, aggettivo e verbo sono i pilastri indistruttibili del nostro pensiero lineare, ovvero pensiero intelligente perché articolato tramite il linguaggio. Proprio perché fondato sul linguaggio, il nostro pensiero ha un potere di astrazione e digeneralizzazione: lavora tramite idee e concetti. Scrive ancora Bergson:

La parola εἶδος (èidos) che qui traduciamo con idea, possiede in realtà questo triplice senso. Essa designa: 1) la qualità, 2) la forma o essenza, 3) il fine o disegno dell'atto che si compie, ossia, in definitiva, il disegno dell'atto supposto compiuto. Questi tre punti di vista sono quelli dell'aggettivo, del sostantivo e del verbo, o corrispondono alle tre categorie essenziali del linguaggio. (...) Dovremmo tradurre con "veduta", o meglio ancora, con "momento". Questo perchè è la veduta stabile presa sull'instabilità delle cose: la qualità che è un momento del divenire, la forma che è un momento dell'evoluzione, l'essenza che è la forma media al di sopra e al di sotto della quale le altre forme si ordinano come sue alterazioni, e infine il disegno ispiratore l'atto che si compie; il quale non è altro che il disegno anticipato dell'azione compiuta.

Qual è allora il punto di arrivo del nostro esperimento? Ritrovare nella realtà fluttuante quelle che chiamiamo cose e ricondurle alle idee non significa altro che dissolvere il divenire e disperderlo nei suoi momenti principali, nelle sue vedute istantanee.
Siamo immersi nella scioltezza della vita; ma come possiamo riprodurla per poterla conoscere? Ritagliamo il reale nella percezione, scattiamo delle istantanee attraverso il linguaggio, dei fotogrammi presi sullo scorrere delle cose, e li proiettiamo in una sequenza spaziale sopra uno schermo nero, l'intelligenza o la mente. Non funziona forse così uncinematografo? Si tratta di un procedimento che consiste nell'estrarre da tutti i movimenti propri di tutte le immagini che si muovono dinnanzi a noi una rappresentazione del movimento in sé, astratto e generale. E l'astrazione ci è resa possibile grazie alle tre categorie dell'intelligenza segnalate da Bergson (forma, essenza, fine), che ci catapultano nell'astrattezza delle idee, sulle quali andranno poi a modellarsi le cose.

Per renderci comprensibile il movimento in generale addizioniamo i nostri fotogrammi e li proiettiamo, come fosse la pellicola di un film, sulla parete della nostra coscienza, che è la memoria, scegliendo una velocità media, ossia ricavata dalla media delle velocità specifiche di ciascuna immagine.

La nostra mente si rivela come un caleidoscopio che scompone e ricompone i fotogrammi sulla pellicola, ovvero proietta sequenze di immagini nella nostra coscienza: in altre parole, la mente è paragonabile a un caleidoscopio cinematografico, in cui noi proiettiamo a noi stessi un film, il movimento reale della vita, la cui sceneggiatura e il cui montaggio sono sempre opera nostra, precisamente della nostra intelligenza.

La nostra mente è un cinematografo. Nondimento il film è una grande metafora, dal momento che la coscienza vorrebbe ricreare in immagini mentali il reale, nella speranza di conoscerlo davvero, profondamente; vuole rivederlo per comprenderlo e definirlo, ma proprio adoperandosi a tal fine fallisce; poiché la mente comprende e definisce soltanto la sua metafora, il suo film, la proiezione artefatta della realtà, non certo il movimento reale. E se poi la metafora è semplicemente un rimando aqualcos'altro, allora l'insieme dei fotogrammi, la sequenza, la sceneggiatura e l'intero montaggio del film non sono altro che un rinvio al divenire reale, alla vita vera, che la coscienza si illude di afferrare con l'intelligenza: la mente, credendo di saziarsi nella realtà, si appaga soltanto delle sue metafore.

Dovremmo reputare fallito il nostro esperimento? Il linguaggio prescrive e descrive, si è ripetuto spesso in passato. È l'appello aun'attività umana. La sua funzione è quella di facilitare la cooperazione fra gli uomini, la comunicazione. Come sottolineava Gilles Deleuze, quando si informa una persona, le si dice (implicitamente) ciò che si suppone dovrà credere, altrimenti non vi sarebbe comunicazione. In una parola, in una sola parola, mi è possibile racchiudere una molteplicità eterogenea di eventi; io ho incontrato "le cose" e le ho ricondotte alla mia parola. L'intelligenza attribuisce la ripetizione al divenire concreto quando vi ritrova una stessa proprietà, come dire, albergante in una variegata molteplicità. Questa molteplicità verrà racchiusa in un'idea, in una parola. Solo così possiamo formulare concetto.

Perchè, chiediamo ancora, operiamo così, sostituendo alla molteplicità imprevedibile l'identità statica? Perchè l'identico è sempre governabile. Si può agire su ciò che si è fissato, maneggiarlo, modificarlo, trattarlo secondo le nostre esigenze, nonché comunicarlo e renderlo utile. Viceversa non possiamo afferrare il mutamento continuo. Il divenire è indefinibile e incomunicabile. Possiamo determinare soltanto l'istantanea che fissiamo su un processo in movimento; possiamo inquadrare soltanto il fotogramma; possiamo ripercorrere soltanto i tagli sul reale, al fine di ricomporli secondo la nostra volontà e incrementare così la nostra conoscenza.
Ma non otterremo mai il reale, non conosceremo mai il suo intimo divenire. Cosa otteniamo allora? Le parole hanno un senso definito e convenzionale, ovvero esprimono il nuovo in funzione dell'antico, parlano del divenire mediante il divenuto: questa assimilazione del successivo al precedente è altresì una connessione razionale, una "logica" interna che attribuiamo alle cose. Discorrere è ritrovare la ragione che risiede nelle cose, conservare il passato nel presente ricollegando i fatti in un ordine coerente di causalità: paradossalmente si potrebbe affermare che conversare è conservare. Con l'intelligenza siamo in grado di ordinare la realtà, cioè di rinvenire una "ragione" in ciò che accade apparentemente senza alcuna ragione.

Nell'esercizio di questa facoltà noi interpretiamo il mondo con i nostri concetti e con le nostre idee, vale a dire proiettiamo nuovamente sullo schermo della nostra coscienza il passato nel presente, il divenire nell'essere. Abbiamo scoperto di essere un cinematografo che sogna di afferrare la realtà, senza mai riuscirci del tutto. Al termine della proiezione, fuori dal cinema, torniamo a immergerci nel mare della realtà che volevamo comprendere. Potremo mai comprenderla davvero? Non c'è alcun dubbio; anzi, a ben vedere, l'abbiamo già afferrata e la afferriamo ancora, in ogni istante della nostra esperienza: quando sappiamo ordinarla, quando scopriamoche la nostra coscienza non è soltanto un apparecchio che proietta immagini, bensì è upatrimonio di significato, che incessantemente offre un senso alle nostre esistenze. Impariamo a leggere la realtà quando scopriamo che la nostra coscienza non è altro che memoria.
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