Il caffè del filosofo
La politica: fra verità e discorsi
Da Machiavelli ad Andreotti
domenica 17 novembre 2019
"(…) Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. (…)
La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della sopravvivenza". Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch'io".
Così parla l'Andreotti di Toni Servillo in un immaginario dialogo con la moglie Livia nel famosissimo capolavoro del 2008 di Paolo Sorrentino "Il Divo", film biografico sulla vita del politico italiano Giulio Andreotti (1919-2013).
Sorrentino ha voluto far emergere il lato oscuro ed enigmatico del potere che si nasconde dietro la maschera della temperanza e del perbenismo: l'uomo più influente nell'Italia della seconda metà dello scorso secolo confessa davanti a Dio la colpa del sangue versato in quegli anni di lotte politiche. In nome di un "bene" il cui contenuto è totalmente arbitrario e relativo. «Perpetuare il male per garantire il bene», soprattutto sempre nascondendo la verità. L'apparenza è quella che conta, e Andreotti ce l'ha fatto capire molto bene: sempre in giacca e cravatta, mai scomposto nelle parole, sguardo indifferente verso la realtà circostante. Chi avrebbe mai potuto pensare che un uomo del genere potesse essere in odore di colpevolezza per atti così truci e osceni, per collaborazione con la mafia e per l'omicidio del leader democristiano Aldo Moro?
Politica come esercizio spregiudicato del potere: quello che Sorrentino esprime nel film è il tema cardine di uno dei filosofi più importanti dell'Italia rinascimentale: Niccolò Machiavelli (1469-1527). Segretario e ambasciatore della repubblica fiorentina verso la fine del '400, regala la sua grande esperienza al famosissimo saggio dedicato a Lorenzo de Medici, duca di Urbino, Il principe (1513).
Il principe di Machiavelli è un uomo con un doppio volto: deve governare con le leggi ma anche con la forza; deve essere volpe e deve essere leone; deve stare, come direbbe Nietzsche, al di là del bene e del male. Non si tratta tanto, per Machiavelli, di certe virtù che un buon principe deve avere, quanto di quelle che il principe deve sfacciatamente ostentare davanti al popolo che governa. La fede, la carità, la magnanimità: tutte doti nobilissime che il politico deve mostrare davanti ad un pubblico udente. Appena scesi dal palco di un comizio, però, appena le telecamere della diretta televisiva si spengono, il politico può, e soprattutto deve essere un rigido e freddo calcolatore con l'unico scopo di conservare il potere:
«(…) E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l'infamia di quelli vizii che li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali è possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo»*.
Eccolo il vero bene del politico "machiavellico-andreottiano": la «securtà» e il «bene essere suo», il mantenimento del potere (le odierne "poltrone") ad ogni costo.
La gelida obiettività e il cinismo con cui Machiavelli descriveva il comportamento freddo, razionale ed eventualmente spietato che un capo di Stato deve mettere in atto, hanno fatto pensare molto i critici, che avevano anche a che fare con l'altra grande opera di Machiavelli, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519), l'opera in cui Machiavelli mostra tutta la sua propensione verso una forma di governo repubblicana. Infatti, un grande repubblicano come Machiavelli avrebbe potuto avere come vero scopo, nel Principe, quello di mettere a nudo le atrocità compiute dai principi dell'epoca, a vantaggio del popolo, che in tal modo potrebbe difendersi. Oppure voleva soltanto entrare nelle grazie del duca Medici per ottenere un qualche posto di prestigio nel governo di Firenze, dal quale era stato cacciato con il ritorno dei Medici al potere durante le guerre d'Italia.
Il rapporto complicato, se così si può definire, tra verità e potere è una questione che ancora oggi fa pensare. Come Andreotti, molti politici italiani e non, contemporanei e antichi hanno potuto narrare la loro storia di vincitori, mettendo a tacere le voci dell'opposizione che invece voleva raccontare una storia del tutto diversa.
Michel Foucault (1926-1984) nel suo corso del 1976 al Collège de France intitolato Bisogna difendere la Società ci offre una critica radicale del potere inteso solo come sovranità e nell'intento di andare ad analizzare come effettivamente il potere si muova nella società, teorizza la cosiddetta "storia della guerra fra le razze". La storia, dice Foucault, è storia di guerra continua tra gruppi d'interesse diversi; entrambi i gruppi hanno una propria narrazione. Il gruppo che riuscirà a prevalere sull'altro, con la violenza e il sangue degli ormai oppressi, si "guadagnerà" il diritto a raccontare la storia a suo piacimento, per così dire: è il caso delle grandi monarchie assolutistiche dell'età moderna, ad esempio, che fanno derivare il loro potere direttamente da Dio. Allora il contro-potere (ad esempio, nel '600, i parlamentaristi nell'Inghilterra o la nobiltà in Francia) realizza una contro-narrazione genealogica, andando a ricercare le reali origini del potere vigente: il sangue, la guerra, la morte. Gli oppositori allora raccontano un'altra storia, opposta alla storia dominante, celebrativa, utile allo scardinamento di questo potere sovrano.
Ogni potere che si dica "legittimo" necessita di una narrazione glorificante affinché si continui a percepirlo come tale, e questa narrazione è un'auto-narrazione falsata dagli interessi in ballo: si pensi, ad esempio, all'Eneide, scritta da Virgilio con l'intenzione di celebrare Augusto e la sua famiglia, la gens Iulia, riconducendo le origini di quest'ultima al grande eroe troiano Enea, fondatore di Roma.
«Voglio dire questo: in una società come la nostra – ma in fondo in qualsiasi società – molteplici relazioni di potere attraversano, caratterizzano, costituiscono il corpo sociale. Queste relazioni di potere non possono dissociarsi, né stabilirsi, né funzionare senza una produzione, un'accumulazione, una circolazione, un funzionamento del discorso vero. Non c'è esercizio del potere senza una certa economia dei discorsi di verità che funzioni in – a partire da e attraverso – questo potere. Siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità**.
* - Il principe, XV capitolo, da https://letteritaliana.weebly.com/
La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della sopravvivenza". Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch'io".
Così parla l'Andreotti di Toni Servillo in un immaginario dialogo con la moglie Livia nel famosissimo capolavoro del 2008 di Paolo Sorrentino "Il Divo", film biografico sulla vita del politico italiano Giulio Andreotti (1919-2013).
Sorrentino ha voluto far emergere il lato oscuro ed enigmatico del potere che si nasconde dietro la maschera della temperanza e del perbenismo: l'uomo più influente nell'Italia della seconda metà dello scorso secolo confessa davanti a Dio la colpa del sangue versato in quegli anni di lotte politiche. In nome di un "bene" il cui contenuto è totalmente arbitrario e relativo. «Perpetuare il male per garantire il bene», soprattutto sempre nascondendo la verità. L'apparenza è quella che conta, e Andreotti ce l'ha fatto capire molto bene: sempre in giacca e cravatta, mai scomposto nelle parole, sguardo indifferente verso la realtà circostante. Chi avrebbe mai potuto pensare che un uomo del genere potesse essere in odore di colpevolezza per atti così truci e osceni, per collaborazione con la mafia e per l'omicidio del leader democristiano Aldo Moro?
Politica come esercizio spregiudicato del potere: quello che Sorrentino esprime nel film è il tema cardine di uno dei filosofi più importanti dell'Italia rinascimentale: Niccolò Machiavelli (1469-1527). Segretario e ambasciatore della repubblica fiorentina verso la fine del '400, regala la sua grande esperienza al famosissimo saggio dedicato a Lorenzo de Medici, duca di Urbino, Il principe (1513).
Il principe di Machiavelli è un uomo con un doppio volto: deve governare con le leggi ma anche con la forza; deve essere volpe e deve essere leone; deve stare, come direbbe Nietzsche, al di là del bene e del male. Non si tratta tanto, per Machiavelli, di certe virtù che un buon principe deve avere, quanto di quelle che il principe deve sfacciatamente ostentare davanti al popolo che governa. La fede, la carità, la magnanimità: tutte doti nobilissime che il politico deve mostrare davanti ad un pubblico udente. Appena scesi dal palco di un comizio, però, appena le telecamere della diretta televisiva si spengono, il politico può, e soprattutto deve essere un rigido e freddo calcolatore con l'unico scopo di conservare il potere:
«(…) E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l'infamia di quelli vizii che li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali è possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo»*.
Eccolo il vero bene del politico "machiavellico-andreottiano": la «securtà» e il «bene essere suo», il mantenimento del potere (le odierne "poltrone") ad ogni costo.
La gelida obiettività e il cinismo con cui Machiavelli descriveva il comportamento freddo, razionale ed eventualmente spietato che un capo di Stato deve mettere in atto, hanno fatto pensare molto i critici, che avevano anche a che fare con l'altra grande opera di Machiavelli, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519), l'opera in cui Machiavelli mostra tutta la sua propensione verso una forma di governo repubblicana. Infatti, un grande repubblicano come Machiavelli avrebbe potuto avere come vero scopo, nel Principe, quello di mettere a nudo le atrocità compiute dai principi dell'epoca, a vantaggio del popolo, che in tal modo potrebbe difendersi. Oppure voleva soltanto entrare nelle grazie del duca Medici per ottenere un qualche posto di prestigio nel governo di Firenze, dal quale era stato cacciato con il ritorno dei Medici al potere durante le guerre d'Italia.
Il rapporto complicato, se così si può definire, tra verità e potere è una questione che ancora oggi fa pensare. Come Andreotti, molti politici italiani e non, contemporanei e antichi hanno potuto narrare la loro storia di vincitori, mettendo a tacere le voci dell'opposizione che invece voleva raccontare una storia del tutto diversa.
Michel Foucault (1926-1984) nel suo corso del 1976 al Collège de France intitolato Bisogna difendere la Società ci offre una critica radicale del potere inteso solo come sovranità e nell'intento di andare ad analizzare come effettivamente il potere si muova nella società, teorizza la cosiddetta "storia della guerra fra le razze". La storia, dice Foucault, è storia di guerra continua tra gruppi d'interesse diversi; entrambi i gruppi hanno una propria narrazione. Il gruppo che riuscirà a prevalere sull'altro, con la violenza e il sangue degli ormai oppressi, si "guadagnerà" il diritto a raccontare la storia a suo piacimento, per così dire: è il caso delle grandi monarchie assolutistiche dell'età moderna, ad esempio, che fanno derivare il loro potere direttamente da Dio. Allora il contro-potere (ad esempio, nel '600, i parlamentaristi nell'Inghilterra o la nobiltà in Francia) realizza una contro-narrazione genealogica, andando a ricercare le reali origini del potere vigente: il sangue, la guerra, la morte. Gli oppositori allora raccontano un'altra storia, opposta alla storia dominante, celebrativa, utile allo scardinamento di questo potere sovrano.
Ogni potere che si dica "legittimo" necessita di una narrazione glorificante affinché si continui a percepirlo come tale, e questa narrazione è un'auto-narrazione falsata dagli interessi in ballo: si pensi, ad esempio, all'Eneide, scritta da Virgilio con l'intenzione di celebrare Augusto e la sua famiglia, la gens Iulia, riconducendo le origini di quest'ultima al grande eroe troiano Enea, fondatore di Roma.
«Voglio dire questo: in una società come la nostra – ma in fondo in qualsiasi società – molteplici relazioni di potere attraversano, caratterizzano, costituiscono il corpo sociale. Queste relazioni di potere non possono dissociarsi, né stabilirsi, né funzionare senza una produzione, un'accumulazione, una circolazione, un funzionamento del discorso vero. Non c'è esercizio del potere senza una certa economia dei discorsi di verità che funzioni in – a partire da e attraverso – questo potere. Siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità**.
* - Il principe, XV capitolo, da https://letteritaliana.weebly.com/
** - Bisogna difendere la società, corso del 14 gennaio 1976, Saggi Universale Economica, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010.