Cavallino. <span>Foto Liliana Salerno</span>
Cavallino. Foto Liliana Salerno
Le parole di Sherazade

Il falcone del re - terza parte

Rubrica a cura di Liliana Salerno

Continua l'affascinante favola de "Il falcone del re", a cura di un'instancabile Liliana Salerno.
Un terzo capitolo da leggere tutto a un fiato: qualora vi foste persi la prima e la seconda parte, è possibile visionarla in qualunque momento sulla sezione dedicata alla meravigliosa rubrica "Le parole di Sherazade".
Una grande storia, originale che si distingue completamente dai racconti tradizionali.
a cura di Luca Ferrante

Terzo capitolo

Lui, invece, non poté fare altrettanto. Le parole di Martino e Valentina gli si concretizzavano in immagini. E, benché non sapesse nulla della donna che intendeva difendere, la suggestione del nome gliela rendeva fragile, come il fiore che vive tra le acque. Gli ritornavano in mente le informazioni che aveva desunto dal racconto dei bimbi, e già si vedeva in armi, ritto in sella al suo cavallo bianco, pronto a duellare per vincere; ma vincere cosa?
Non gli importava, il senso della gloria gli bastava di per sé, cosicché quando il sole cominciò a scaldare la stalla e a dare colore alle cose che lo circondavano, in realtà non aveva chiuso occhio.
Il cavallo e il falco, invece, l'uno ignaro delle intenzioni del padrone, l'altro stanco e col buio sul volto, dormirono alla grande, fino al primo chicchirichì del gallo che zampettava nel cortile.
Sua Maestà non attese che il suo compagno di viaggio facesse toeletta e incominciò a tormentarlo: «Allora, amico mio, cosa ne pensate della mia nuova impresa?»
«Quale impresa?» sbadigliò il pennuto.
«Suvvia» - incalzò il Re - «non diceva il puka di principesse da liberare dalle grinfie di un drago?»
«Re Remigio non è un drago» obiettò il falco ancora dormiente.
«Ma si comporta in maniera violenta nei confronti di una principessa, che il solo rango mi permetterebbe di difendere!»
Il Re pensava di essere stato sottile e arguto, ma il falco lo ricondusse celermente alla quotidianità: «E con che cosa la dovreste difendere? Con la zappa, il rastrello e la falce che vi sta portando Martino?»
Quest'ultimo, infatti, come convenuto, entrava nella stalla, carico di attrezzi da lavoro.
Lo seguiva Valentina, con una parca colazione, a base di pane di segale, cacio e acqua.
Il Re chiese il solito catino, che gli venne concesso, poi dovette sbrigarsi in fretta, per raggiungere i campi. Era singolare davvero vedere un contadino che portasse legato al polso, un falco pellegrino, ma la bestia, paziente, assecondò tutti i movimenti del Sovrano.
La giornata fu lunga e faticosa.
Sua Altezza, solito riposare tra le lenzuola di lino fino ad ora di pranzo, dovette conoscere il sentore delle zolle, dell'erba estirpata, il senso della fatica ed il calore del sole quando è a picco sui campi.
Non era un esperto di campagna e spesso doveva fermarsi a domandare, ma lavorò comunque di buona lena, instancabilmente, fino a quando vide una donna risollevare la schiena, volgere lo sguardo verso il sole calante ed intonare, con voce profonda e melodiosa, un canto di ringraziamento per la giornata trascorsa.
A quel suono tutti i contadini abbandonarono gli attrezzi e volsero la faccia, in segno di ringraziamento, verso il sole.

Di lì a poco, comparve all'orizzonte un banditore a cavallo, seguito da carri già carichi di gente. Allora Martino si avvicinò a sua Maestà e disse: «Amico mio, se è quello che volete, questo è il vostro momento. Quel banditore raccoglie i lavoranti che ricostruiscono le mura. Potete unirvi a loro, ma state attento, perché se vi allontanate, prima di aver terminato, dal posto che vi assegnano, sarete considerato traditore della patria, ricercato e, nel caso, giustiziato; Vi attendo domani mattina, per il lavoro che dovete a me, nel nostro campo!»
«Grazie Martino» rispose Sua Altezza, e fece cenno al banditore, che gli indicò un carro. Salì tra altra gente, col paziente falcone al polso, stanco quanto lui.
I carri fecero il loro tragitto sobbalzando, e, nella notte, raggiunsero la città. Venivano guidati da uomini d'arme, rudi, ma essenziali.
Sua Altezza ebbe il suo posto di lavoro: una breccia enorme, quasi interamente distrutta dalle cannonate. Così, dopo aver fatto il contadino per l'intera giornata, apprese l'arte del muratore nella notte. Era stanchissimo! Ciò nonostante il suo lavoro era incessante.
La notte era buia, e quando il banditore ordinò la pausa, per l'ispezione regale, Sua Maestà cercò di aguzzare la vista.
Ma il convoglio era troppo distante, e come accade per le cose veramente belle, trascorse in un lampo.
La ricostruzione delle mura terminò ad un'ora dall'alba, sicché il Re ebbe appena il tempo di raggiungere il giaciglio, che, addormentandosi, dovette svegliarsi.
Si ripeté il rito dello scorso mattino: entrò Martino, nella stalla, recando con sé gli attrezzi. Poi entrò Valentina, con la colazione ed il catino dell'acqua.
Il Re, dolorante e dormiente, si recò ai campi, col fedele amico, sempre legato al polso.
Comunque non si lamentavano.

Avvezzi alle difficoltà della guerra, sapevano bene entrambi, come il dolore sia una necessità della vita. Per la prima volta Sua Altezza vide spuntare il ruvido dei calli sul palmo delle mani, ma il duro lavoro non alterò la leggerezza dei suoi lineamenti; la giornata scorreva lenta, ma per Sua Altezza tutto aveva il senso del nuovo, per cui infondeva forza e vigore nelle azioni più banali.
Il falco, invece, sentiva tutta l'inutilità del proprio ruolo. Tutto quel darsi da fare non era mai stato necessario per la sua specie, che non aveva la necessità di curvarsi a terra per cercare il cibo, bensì di spaziare dall'alto, esplorare, nel cielo o nella pianura, l'uccello più piccolo o l'agnellino solo, da poter catturare.
Non se ne sentiva un mostro, perché, si diceva, da filosofo, "è la natura che ha messo ordine fra le cose ed ha fatto volpe la volpe e tigre la tigre".
In quel contesto persino il suo pensare risultava inutile, per cui attendeva con ansia il canto della donna, che annunziava la fine della giornata. E questa arrivò da una voce più giovane ed intensa.
Poi, come il giorno precedente, arrivò il banditore coi suoi carri.
Il falco fece in tempo a protestare all'orecchio del Signore: «Sire!», ma questi era già salito al suo posto, stanco e determinato quanto stranamente felice.
Così giunsero ancora, nel cuore della notte, sulle mura della città.
Caso volle che vi si inoltrassero.
Ciò che avevano costruito la sera precedente era nuovamente distrutto, ma nessuno pareva domandarsi dell'inutilità di quel fare e disfare.
La sera era più fresca della precedente, ed uno spicchio di luna rendeva gigantesche le ombre.
Quando il banditore ordinò l'interruzione dei lavori, ancora una volta il falco esclamò all'orecchio del Re: «Sire!»… infatti il cocchio regale non era a più di cinquanta metri da loro.
Il Re esultò come per una conquista, ma in realtà l'apparizione fu fugace e la distanza, benché ridotta, era ancora determinante.
Trascorse così la sua seconda notte insonne, ma dopo quanto era accaduto, anche il falco cominciava a credere nella possibilità di una storia.
«Coraggio», infatti, disse al padrone, stremato di fatica, quando tornarono alla stalla per cercare di riposare, «non tutto ciò che appare scuro è poi di colore nero!»
Così, per poco, si addormentarono ancora.

Quando dovettero svegliarsi Sua Maestà fu tentato di assassinare il gallo, ma Martino, fresco e riposato, entrò nuovamente nella stalla, con gli stessi arnesi, più un falcetto.
«Quest'oggi» disse: «Andremo a mietere il grano»; ed aveva una espressione felice nel dire ciò, come di chi riceva un dono dalla vita e ne faccia tesoro.
La sua vitalità fu comunicativa.
Fecero toeletta in fretta, poi si recarono ai campi, dove biondeggiavano onde di grano su spighe mature. Trascorsero la giornata, chini, sulle spighe, quasi sempre nella stessa posizione, ma il ricordo di quanto era accaduto nella notte scorsa sorreggeva il Sovrano e rendeva costruttivamente pensieroso il falco.
Poi, anche questa giornata volse alla fine, ma prima che il banditore potesse comparire, un vero coro di donne, si alzò festoso fino al cielo.
Sua Altezza prese posto nel solito carro e giunsero ancora, a notte fonda, per le vie della città.
Il banditore gridò: «Ehi, voi del secondo carro!: al bastione della Porta di mare che è crollato stamane!»
Così, Sua Maestà entrò nel cuore della città.

Era una notte diversa dalle altre. Certo la notte di un lungo giorno che aveva visto la battaglia più dura dopo dieci anni.
Re Remigio era incaponito e forte, ma una luna piena, più tonda, più chiara, più bionda delle altre, illuminava il porto quasi a giorno.
Il bastione della Porta di mare aveva ceduto per davvero e se Re Remigio avesse approfittato della luce della luna la città sarebbe stata sua.
Ma non lo fece, così il nostro Re, armato di pazienza, incominciò a ricostruire, masso dopo masso. Lavorava di buona lena già da un pezzo, quando, nel chiarore immacolato della strada, si intravide un'ombra nera, che pian piano diventava grande: era il cocchio regale di Sua Altezza la Principessa Ninfea, la quale, da buon capo di Stato, veniva ad esaminare il punto esatto del cedimento.
La carrozza proseguiva rapidamente, ma nel frenare i cavalli davanti alla Porta di mare, il conducente non vide un fosso, nel quale si infilò la ruota posteriore destra.
Il sobbalzo spalancò lo sportello della carrozza dalla quale qualcosa schizzò via.
Sua Maestà fu lesto: con un balzo si slanciò verso la carrozza e tese le braccia a soccorrere... un orsetto di peluche.
Istintivamente lo strinse al petto, e quella fu la sua fortuna.
«Frena» - gridò tremante una voce femminile.
Ma la carrozza era già ferma.
Ne discese la più bella creatura che la natura avesse mai inventato. Avvolta in un abito bianco, con i lunghi capelli corvini sciolti sulle spalle, sembrava leggera e luminosa, come la luna stessa.
Rapidissima si avvicinò a Sua Maestà, il quale fu pronto a renderle l'orsetto; ma, nel porgerle il prezioso fardello, alzò il viso sul volto di lei, ed i loro occhi si incrociarono.
Per un attimo interminabile furono unici e soli, nella loro perfetta armonia, poi la Principessa Ninfea disse: «Grazie, soldato!». Strinse al petto l'orsacchiotto e aggiunse: «Questo che potete considerare solo un oggetto, a me è caro più della vita e della virtù. Sarete ricompensato per quello che avete fatto. Tesoriere?»
Aveva già chiamato quando Sua Altezza si oppose dicendo: «Vostra grazia è troppo buona, pensando di ricompensarmi in moneta, ma, a dispetto del mio aspetto e dell'attitudine in cui mi trovate, il mio rango non mi permette di accettare moneta come compenso».
«Ciò che dite è molto strano, Signore, tuttavia per davvero il vostro non sembra il linguaggio di un soldato»
«Principessa, consentitemi per l'istante, di tacervi il mio lignaggio, ma consideratemi un nobile e, come tale, a Vostro servizio»
«Come posso ricompensarvi allora?» chiese la Principessa sempre più stupita.
«Consideratemi un cavaliere», rispose il Re, «e come tale permettetemi di difenderVi da chi Vi opprime».
«Cosa intendete, Signore?» continuò Ninfea.
«Intendo giostrare in Vostro favore, contro Re Remigio, consentitemelo, e che questo ponga fine alla Vostra guerra!»
«Signore, se non aveste salvato il mio orsacchiotto la vostra condotta significherebbe morte certa. Perché senz'altro saprete che solo un Re può giostrare e confrontarsi con un Re. Remigio ha nobili natali e porta la corona: come potrei proporgli di confrontarsi con voi?»
«Vostra grazia, Voi non conoscete il mio lignaggio, ed io Vi garantisco, alzando la lancia, di non recare offesa al Vostro Signore»
«Cavaliere, non posso prendere questa decisione senza consultare il parere degli anziani del paese. Loro vi sottoporranno ad una prova che dimostri la sincerità delle vostre intenzioni e renda certo il vostro lignaggio».
Ciò detto raccolse le vesti, strinse l'orsetto, e risalì in carrozza.
Fu il conducente ad aggiungere, rivolto a Sua Altezza: «Presentatevi armato di tutto punto, fra quattro giorni, alla Torre Maestra del paese, dove sarete esaminato». Poi salì a cassetta, prese le redini e si avviò, sotto gli sguardi degli astanti, e le orecchie di un falco esterrefatto, che ancora non riusciva a credere all'accaduto.

Nuovo appuntamento con "Le parole di Sherazade" di Liliana Salerno venerdì 23 ottobre
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