Scogliera
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Le parole di Sherazade

La rupe di leucade

Rubrica a cura di Liliana Salerno

Un viaggio strano e pieno di complicazioni in Tunisia è il tema della nuova favola di cronaca della rubrica "Le parole di Sherazade", consigliata a un pubblico maggiore di 12 anni.
Protagonista della storia, scritta da Liliana Salerno, una donna che aveva deciso di partire per «celare al mondo il suo volto e la sua anima infranta».
a cura di Luca Ferrante

C'era una volta … la Tunisia; magica terra avvolgente, ma non meta agognata.
Come fu che mi ci ritrovassi?
Il titolare dell'agenzia viaggi sembrava bonario dietro la scrivania, ma tentennava il capo in segno di diniego: no! Per Ibiza non c'erano più posti.
Vedevo svanire il mio viaggio trasgressivo, eppure non potevo rimanere: il mio compagno di una vita, messo alle strette, aveva confessato che si, aveva sposato un'altra da un anno (si era guardato bene dal dirmelo... e la distanza delle nostre residenze, situate in paesi diversi, aveva fatto il resto!...); ora aspettava una bimba da lei, ed il mio mondo mi precipitava addosso come un macigno.
Non potevo gridare, azzannare come avrei voluto, come il dolore e l'istinto comandavano.
Potevo solo partire… per celare al mondo il mio volto e la mia anima infranta.
Al di là della scrivania l'uomo propose un'oasi: il villaggio di El Kebir, ed a me andava bene.
Sarebbe andata bene ovunque, purché lontano, purché altrove!
Nel partire, a mia madre affranta ed apprensiva, consegnai il mio numero di cellulare con tutti gli uno tramutati in sette: volevo essere sola a leccarmi le ferite.
Fu così che chiusi la valigia e partii.

La prima cosa che mi accolse, della Tunisia, fu l'afa: ben diversa dalle nostre calure.
Avvolgente come una cappa, comprimeva la pelle nella notte africana, mentre scendevo dai gradini della scaletta dell'aereo.
…e l'odore che si spandeva nell'aria era come di sabbia, o di pelle di cammello… o di non so che.
Il pullman ci attendeva poco distante, ma gli animatori del villaggio non avevano portato acqua.
La sete attanagliava me ed i compagni di viaggio, per cui, giunti nella hall, non chiedevamo altro.
Come un miraggio delle enormi scatole trasparenti contenevano mentorzata ghiacciata.
Senza un briciolo di vergogna ne bevvi tre bicchieri, nella speranza che il mio stomaco non recalcitrasse.
Era oltre mezzanotte, ma l'organizzazione aveva previsto la cena.
Ero troppo stanca per sedere ad un tavolo: chiesi di andare a dormire, e mi fu assegnata la stanza.
Mi affacciai subito al balconcino e la notte africana era lì, in quello splendido giardino rischiarato da una luna esotica e forse pagana.
Tornai in camera e mi preparai per dormire, ma quando sollevai il lenzuolo per adagiarmi sul letto una enorme fila di formiche, nera, lo attraversava interamente.
Ero così stanca che mi ci sarei sdraiata comunque, ma avevo orrore dell'idea che le bestioline si potessero introdurre tra i capelli, costringendomi a tagliarli.
Mi rivestii in fretta ed andai a protestare.
Il giorno dopo volevo ripartire per l'Italia, ma mi fu specificato che non ci sarebbero stati voli di lì a sette giorni, per cui dovetti rassegnarmi a "godermi" il divertimento.
Fu così che tra un tiro con l'arco, una canoa, uno spettacolo ed una danza, cercai di rilassarmi.
Come sempre mi accolse il mare: un mare cristallino, dalla sabbia bianca, abitato da alghe filiformi, pronto ad assorbire per intero il mio dolore fra le asterie arabe proposte dalla corrente.
Mi avevano detto di non uscire dal villaggio, paventando non so quali pericoli, ed io non ne avevo proprio l'intenzione.
Essendo sola relazionavo con facilità, rispondendo, con qualche cautela, alle domande dei Tunisini che lavoravano in spiaggia.
Ogni volta mi chiedevano se fossi sposata, e perché fossi sola e lontana dal mio paese.
Rispondevo loro, sistematicamente, che mio marito era rimasto in Italia, che non avevo figli, e tutta un'altra serie di fandonie.
Del mio fantomatico marito i miei esotici interlocutori dicevano tutti la stessa cosa: «Disgraziato!»
Ed io, da brava occidentale, non capivo perché.
Mi divertii ad attraversare la spiaggia a dorso di cammello. Provai a fumare il Narghilè, poi, non sapendo che fare andai a prenotare un'escursione.
L'ultima, prima della partenza: per visitare il souk di Tunisi.
Il giorno dopo saremmo ripartiti.
In compagnia di altre persone, che avevo conosciuto al villaggio, presi posto sull'autobus che ci conduceva a Tunisi, dove, spiegò la guida, il mercato è definito uno dei più pericolosi labirinti del mondo; pertanto ci invitava a non lasciare la via principale attratti da altre stradine, perché altrimenti né lui, né la polizia sarebbero riusciti a trovarci.
Ed io, ligia a quanto mi era stato detto così feci.

Il souk di Tunisi non ci aspettava; esisteva di per se stesso, con la sua vita autonoma; aveva ben altro da pensare che a noi turisti da strapazzo.
O almeno così sembrava.
Del resto, anche il serpente, nel cesto dell'incantatore, quando il flauto tace, solitamente non appare.
La strada principale, che ci avevano raccomandato di non lasciare, aveva la larghezza di un viottolo di campagna, e le si affacciavano, senza porta alcuna, le più svariate e variopinte boutiques.
Tra bazar e bancarella la merce esposta copriva tutta la superficie del negozio, mostrando stoffe, abiti, tele ed oggetti di ogni genere.
Persistente ed invasivo, quell'odore dell'Africa, che avevo definito, nel mio immaginario, di sabbia o di concia di cammello, regnava sovrano e fisico, come l'afa che lo accompagnava.
Seguivo il gruppo, quando, da una nicchietta fantasmagorica, un tunisino sorridente mi fece segno di entrare.
Mi affacciai a guardare le sue collane: belle!
Quando avevo terminato di rigirarne una tra le mani, sapientemente, lui, me ne mostrava un'altra, finché, persuasa della bellezza dell'oggetto, prefigurando il piacere di regalarle alle nipoti, le scelsi, concordai il prezzo e le acquistai.
Quando ritornai in strada mi guardai intorno, ma il gruppo non c'era più!
Tentai qualche passo seguendo la strada circolare che delineava l'arco esterno del souk, ma degli altri occidentali non c'era traccia e feci la cosa più stupida che una turista di pelle bianca possa fare in quella circostanza: mi rivolsi ad un mercante chiedendogli dove fossero andate le persone del gruppo.
L'uomo mi sorrise incoraggiante ed io non dubitai minimamente che dicesse il vero, per cui mi inoltrai verso la strada che mi veniva indicata…
Avevo percorso pochi metri, ma la viuzza si restringeva sensibilmente e non c'erano più negozi.
Inteso il tranello reagii d'istinto, girandomi repentinamente con uno scatto deciso della testa, quando vidi, distintamente, enormi cubi vorticanti di luce precipitarmi velocemente addosso.
Rimasi immobile: era la malia del luogo.
Chiunque ne sarebbe stato atterrito.
Ecco il segreto di uno dei labirinti più pericolosi del mondo: un effetto ottico! Capace di stordire e tramortire l'incauto visitatore.
Rimasi immobile ad occhi aperti, e, pian piano le linee ritornarono al proprio posto. La visuale ripropose lo spettacolo consueto del souk.
Ripercorsi la strada a ritroso, ma in preda alla paura e non sapendo bene dove andare…
Finalmente intravidi una coppia in abiti occidentali che conversava serenamente. Trafelata mi rivolsi loro senza stile, né sintassi: «Bonjour monsieur, s'il vous plait, pour aller à la place du Governo?»
…e così mi incamminai verso la parte meno antica del luogo.
A confermare il sospetto che l'accaduto potesse non essere casuale mi venne incontro un giovane tunisino che mi chiese, in perfetto italiano, se volessi ammirare la terrazza panoramica; ma io ero in preda al panico, e non vedevo l'ora di liberarmi di quella pericolosa ragnatela.
Tornata al villaggio, inoltre, gli indigeni con cui avevo socializzato in spiaggia sgranavano gli occhi, e, nel vedermi, cominciarono ad imprecare nel loro linguaggio stretto stretto.
Non vedevo l'ora di ripartire: la paura aveva ottenebrato tutte le mie facoltà, ma il dolore che aveva accompagnato il mio viaggio era come lenito, ed io mi domandavo se non fosse questo il salto consigliato dagli antichi all'innamorato respinto: la Rupe di Leucade.
Di certo la mia mente era protesa verso un solo pensiero: tornare in Italia.
E, sbarcata all'aeroporto di Napoli, intonai, marciando, ad alta voce ed incurante del fatto di essere osservata, l'Inno di Mameli!


Nuovo appuntamento con "Le parole di Sherazade" di Liliana Salerno martedì 1 dicembre

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