Ballerine di Degas
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Le parole di Sherazade

Mara la slava

Rubrica a cura di Liliana Salerno

Protagonista del racconto una ballerina che, dopo tanti anni di preparazione, si esibisce su un prestigioso palcoscenico davanti a un pubblico di un paese straniero.
L'originale storia di "Mara la slava" è stata scritta da Liliana Salerno.
a cura di Luca Ferrante

Mara la slava trattenne il fiato, si concentrò, attese il raggio bianco del riflettore, la musica, contò le battute e tentò di rilassare i nervi del collo.
Era il suo grande momento: il suo ASSOLO.
Anni e anni di preparazione solo per arrivare a questo: un palcoscenico, il raggio di un riflettore, la musica, ed i volti del pubblico di un paese straniero.
Pochi istanti di riflessione e paura, poi la libertà dell'arte. Contò quel tempo, apparentemente interminabile, e si slanciò nel palco vuoto, alla ricerca di passi noti, dei saltelli, delle figure provate e di se stessa.
Nella danza si ritrovò, ma non sola.
Qualcosa era mutato, fuori e dentro di lei; qualcosa di impercettibilmente diverso dal tempo delle prove. Lo spazio non era più la vasta sala rivestita di parquet; non c'erano specchi in cui controllare la posizione delle mani, della testa, la lunghezza dei passetti.
E nemmeno lei era più la donna di prima, ma un organismo perfetto, mosso da non so quale magica armonia, un insieme di azione e pensiero, nel martellare insistente del pianoforte e nel frenetico portare il tempo della mente.
Tuttavia sorrideva.
Era certa della sua capacità di esibizione; aveva lavorato per questo, superato selezioni, provini, parolacce, imparato una lingua diversa, imparato a sorridere e a considerare gli insulti come parte del mestiere.
Ora, il pubblico tanto atteso era lì, sotto di lei, spaventosamente silenzioso, ma amico.
L'unica cosa per cui valesse lottare!
Mara la slava volle dimenticarlo, e con lui, tutto il resto.
Il dolore, il freddo, la fatica, i sacrifici, il viaggio, l'ostilità della gente; tutto dimenticato in quello spazio limitato, ma suo, solamente suo, eternamente suo. Non esisteva altro che la musica, quella strana, interna armonia fra pensiero e azione, ed il suo corpo, docilmente flessibile: la musica e lei, la musica e la sua anima nuda, finalmente decisa a dare se stessa, a comunicare la propria esistenza senza limiti, seppure nel tempo contato delle battute musicali.
Il pianista scemava il motivo, con una specie di introduzione della fine.
Mara la slava vi si immerse e sublimò il dolore in ardite figure, molte volte provate, ma non mai così. Volteggiò spavalda, ricadde con precisione, saltò sulle note, poi chiuse il suo assolo ripiegandosi dolcemente. Il palco ormai non conteneva più solo il suo corpo ed il tacere improvviso della musica sembrò brutale, tanto da lasciare gli animi turbati, attoniti, fortemente commossi.
Mara la slava si rialzò, tentò un inchino, un po' scolastico, da ballerina, e fu investita dalla violenza dell'applauso scrosciante, che si liberava sotto di lei, al punto da non realizzare il suo trionfo, l'avverarsi del suo sogno, che con un attimo di ritardo.
Le fu fatale.
Ciò che aveva costruito, accarezzato, pensato, conquistato, aveva perso il suo splendore per sé e brillava negli occhi degli altri.
Per lei non aveva più importanza. Provava solo un senso di vuoto, di solitudine, di angoscia.

Il sipario era calato sulle rose sparse che il pubblico le aveva lanciato, schiacciandole. Non le raccolse e sperò che marcissero. Ricordava altri roseti in fiore, non recisi, nelle terre della sua infanzia, così lontane, quasi remote nella memoria, eppure in quest'attimo stranamente risorgenti in nitide immagini.
Intanto la abbracciavano, la stringevano, le facevano i complimenti, la abbagliavano con i flash e le domande che non capiva bene, alle quali rispondeva con un mezzo sorriso, fisso, automatico, quasi plateale.
Si sentiva sporca, accaldata, sudata, col tutù spiegazzato ed il trucco in rivoli gocciolanti di nero.
Volle fuggire. Fuggire dalla gente, dagli abbracci, dalle parole incomprensibili intrecciate sul suo capo, per ritrovare una dimensione più vera, in cui ricordare e rivivere l'emozione di quello spazio, limitato ma suo.
La musica le martellava ancora nelle tempie, il tempo fremeva nelle gambe come fossero percorse da brulicanti formiche, e pensò che se non ci fosse stato nessuno, attorno a lei, sarebbe tornata indietro, per ricominciare, magari ripetere l'assolo.
«Ma un assolo così non si ripete» le suggerì una voce interna nella sua lingua madre, e Mara la slava finalmente comprese la bellezza e la felicità che aveva creato.
Soffocata dalla piena dei sentimenti, trovò veramente la forza di fuggire, lungo il corridoio, fino alla porta del camerino. La raggiunse, ed in un attimo la richiuse, a chiave, dietro di sé.
Aveva sempre odiato quello spazio angusto, le aveva sempre dato un senso di oppressione, con quegli specchi, malamente collocati, le luci da stanza da bagno e le pareti spoglie, ma adesso le sembrava l'unico rifugio sicuro, e, per accertarsene ulteriormente incominciò a riordinare gli oggetti personali, ma solamente per tastarli, per toccare con mano la loro fisica presenza, quasi che potessero sfuggirle, o svanire, o portare con loro un pezzo di sé.
Mara la slava fu l'ultima ballerina ad uscire dal teatro quella sera.
Aveva riempito quanto più possibile la sua sacca, ma non le pesava trasportarla.
Camminava felice, nel buio, metropolitano, della notte.


Nuovo appuntamento con "Le parole di Sherazade" di Liliana Salerno martedì 2 febbraio

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