Le ragnatele di Ersilia
Ricordare e dimenticare
Rubrica di cultura e società
domenica 10 gennaio 2021
15.00
Dimenticare è sempre stata la norma e ricordare l'eccezione. Ma oggi questo equilibrio si è ribaltato e la norma è ricordare. La tecnologia digitale, dirà Mayer Shongerger, ha permesso che la capacità di dimenticare fosse temporaneamente sospesa.
Una tecnologia che non permette di dimenticare ci rende sempre più schiavi del potere . Pensavamo di poter esprimere liberamente le nostre opinioni, con i social per esempio. Ma l'idea che tutto quello che diciamo possa poi sopravviverci e restare anche dopo la nostra morte, ci fa paura. Cominciamo ad autocensurarci, a limitare le parole, a smussare i toni delle conversazioni, a modificare i testi e le immagini, a frequentare sempre meno lo spazio digitale, a condividere sempre meno le nostre esperienze personali con gli altri. E ci poniamo il problema del futuro di queste nostre conversazioni.
Ciò che rischia di restare per sempre fa paura.
Viviamo in una società strana, c'è di sicuro, grazie all'uso della tecnologia digitale, un ritorno alla cultura dell'oralita' ma paradossalmente di un oralità che porta con sé un marchio indelebile. La prigione teorizzata da Jeremy Bentham non è poi tanto dissimile da quella che oggi ci costringe a rivedere ogni nostro comportamento nello spazio digitale.
Bentham, filosofo e giurista, nel 1791 progettò un carcere, un panopticon. Questo carcere ideale avrebbe permesso ad un unico sorvegliante di osservare tutti senza che questi potessero capire di essere sorvegliati.
Questo progetto ha ispirato numerosi pensatori e filosofi, pensiamo a Foucault, Chomsky, Bauman fino ad arrivare a Orwell che nel suo "1984"ne ha fatto una metafora del potere, costituisce la sintesi perfetta, la rappresentazione perfetta del nostro vivere ed essere incarcerati.
Oggi siamo ormai portatori sani di sorveglianza. Siamo quotidianamente osservati grazie alla Rete, da un sorvegliante che non vediamo.
La Rete ci fa sentire come dirà Bentham, «detenuti in uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere».
L'obiettivo di quel grande progetto era esercitare un potere che fosse "visibile e inverificabile": visibile perché il carcerato doveva avere davanti a sé la sagoma della torre centrale da dove è spiato; inverificabile perché egli non doveva mai sapere se fosse guardato nel momento attuale ma soltanto la consapevolezza di poterlo essere continuamente.
Nel Panopticon non importa chi esercita il potere, può farlo anche un individuo qualsiasi. Non è neanche importante il motivo che lo muove: la curiosità di un uomo, un desiderio recondito di sondare la vita altrui, il godimento e la voglia di punire.
I desideri di chi muove la macchina sono tanti ma l'effetto è uno soltanto: togliere la libertà per poi esercitare il potere.
L'obiettivo, in realtà, di questo antico e formidabile progetto del diciottesimo secolo era ricondurre i sorvegliati alla buona condotta, i pazzi alla calma, gli operai al lavoro, gli scolari ad applicarsi allo studio, gli ammalati all'osservanza delle prescrizioni.
Un progetto semplice, una perfetta architettura che non prevedeva torture e costruzioni. Ma che avrebbe tolto la cosa più cara all'uomo, il suo essere libero.
La società disciplinare in realtà ha attuato simili sistemi di controllo e lo ha fatto in diversi periodi della storia. E la pandemia oggi ci ricorda momenti in cui, durante la peste del diciassettesimo secolo, il potere ha marchiato, esiliato il "lebbroso". L'importante era dividere il normale dall'anormale. Escludere, distanziare, controllare, disciplinare.
Siamo portatori sani di sorveglianza e consapevoli di aver perso la parte più intima di noi. Perché il nostro corpo è l'espressione più integra di ciò che siamo e desideriamo. Noi desideriamo attraverso i corpi, amiamo con i corpi, ci spostiamo con i corpi, ci ammaliamo con i corpi, ci nutriamo attraverso i corpi.
Le epidemie ci rendono nudi davanti agli altri, palesano le paure, tradiscono i pensieri. Mostrano la parte più fragile di ognuno di noi. E la Rete non fa che smerciare questo dolore.
Ciò che ci rende diversi dal passato e più suscettibili di sofferenza è la nostra, purtroppo, incapacità di dimenticare. Sorvegliamo, registriamo e archiviamo. E protraiamo il dolore, così, all'infinito. Senza nessuna possibilità di scampo.
Una tecnologia che non permette di dimenticare ci rende sempre più schiavi del potere . Pensavamo di poter esprimere liberamente le nostre opinioni, con i social per esempio. Ma l'idea che tutto quello che diciamo possa poi sopravviverci e restare anche dopo la nostra morte, ci fa paura. Cominciamo ad autocensurarci, a limitare le parole, a smussare i toni delle conversazioni, a modificare i testi e le immagini, a frequentare sempre meno lo spazio digitale, a condividere sempre meno le nostre esperienze personali con gli altri. E ci poniamo il problema del futuro di queste nostre conversazioni.
Ciò che rischia di restare per sempre fa paura.
Viviamo in una società strana, c'è di sicuro, grazie all'uso della tecnologia digitale, un ritorno alla cultura dell'oralita' ma paradossalmente di un oralità che porta con sé un marchio indelebile. La prigione teorizzata da Jeremy Bentham non è poi tanto dissimile da quella che oggi ci costringe a rivedere ogni nostro comportamento nello spazio digitale.
Bentham, filosofo e giurista, nel 1791 progettò un carcere, un panopticon. Questo carcere ideale avrebbe permesso ad un unico sorvegliante di osservare tutti senza che questi potessero capire di essere sorvegliati.
Questo progetto ha ispirato numerosi pensatori e filosofi, pensiamo a Foucault, Chomsky, Bauman fino ad arrivare a Orwell che nel suo "1984"ne ha fatto una metafora del potere, costituisce la sintesi perfetta, la rappresentazione perfetta del nostro vivere ed essere incarcerati.
Oggi siamo ormai portatori sani di sorveglianza. Siamo quotidianamente osservati grazie alla Rete, da un sorvegliante che non vediamo.
La Rete ci fa sentire come dirà Bentham, «detenuti in uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere».
L'obiettivo di quel grande progetto era esercitare un potere che fosse "visibile e inverificabile": visibile perché il carcerato doveva avere davanti a sé la sagoma della torre centrale da dove è spiato; inverificabile perché egli non doveva mai sapere se fosse guardato nel momento attuale ma soltanto la consapevolezza di poterlo essere continuamente.
Nel Panopticon non importa chi esercita il potere, può farlo anche un individuo qualsiasi. Non è neanche importante il motivo che lo muove: la curiosità di un uomo, un desiderio recondito di sondare la vita altrui, il godimento e la voglia di punire.
I desideri di chi muove la macchina sono tanti ma l'effetto è uno soltanto: togliere la libertà per poi esercitare il potere.
L'obiettivo, in realtà, di questo antico e formidabile progetto del diciottesimo secolo era ricondurre i sorvegliati alla buona condotta, i pazzi alla calma, gli operai al lavoro, gli scolari ad applicarsi allo studio, gli ammalati all'osservanza delle prescrizioni.
Un progetto semplice, una perfetta architettura che non prevedeva torture e costruzioni. Ma che avrebbe tolto la cosa più cara all'uomo, il suo essere libero.
La società disciplinare in realtà ha attuato simili sistemi di controllo e lo ha fatto in diversi periodi della storia. E la pandemia oggi ci ricorda momenti in cui, durante la peste del diciassettesimo secolo, il potere ha marchiato, esiliato il "lebbroso". L'importante era dividere il normale dall'anormale. Escludere, distanziare, controllare, disciplinare.
Siamo portatori sani di sorveglianza e consapevoli di aver perso la parte più intima di noi. Perché il nostro corpo è l'espressione più integra di ciò che siamo e desideriamo. Noi desideriamo attraverso i corpi, amiamo con i corpi, ci spostiamo con i corpi, ci ammaliamo con i corpi, ci nutriamo attraverso i corpi.
Le epidemie ci rendono nudi davanti agli altri, palesano le paure, tradiscono i pensieri. Mostrano la parte più fragile di ognuno di noi. E la Rete non fa che smerciare questo dolore.
Ciò che ci rende diversi dal passato e più suscettibili di sofferenza è la nostra, purtroppo, incapacità di dimenticare. Sorvegliamo, registriamo e archiviamo. E protraiamo il dolore, così, all'infinito. Senza nessuna possibilità di scampo.