Le ragnatele di Ersilia
Una domenica d'agosto
Rubrica di cultura e società
domenica 16 agosto 2020
8.35
«Questo è l'ultimo anno», diceva mia nonna, una volta portata a termine la missione.
Sì, fare la salsa era una missione da compiere e tutti i componenti della famiglia, dal più grande al più piccolo, venivano chiamati a raccolta e posti in fila per la scelta del ruolo che solo i nonni potevano assegnare.
Le cose belle e cariche di senso accadono sempre in un periodo circoscritto della nostra vita e per fortuna non si ripetono all'infinito. Perché poi si possano raccontare e parlare di esse come storie di altri tempi, archetipi di felicità che tornano in mente quando il tempo si annoda su se stesso, perde i suoi contorni come un quadro che ha perso la sua cornice e non sai più dove comincia e dove finisce un ritratto.
Questo racconto ha, invece, dei contorni netti e precisi, una storia cristallizzata come la casa che la contiene. Dove non devi spostare nulla, dove potresti anche camminarci al buio perché sai benissimo come orientarti.
Per noi pugliesi la ritualità parte sempre dalla scelta del pomodoro perché il pomodoro per noi è cosa seria. Esistono tantissime varietà di pomodori ma nonna ne voleva solo uno, il fiaschetto di Fasano, una vera delizia, e quando il prezzo al mercato calava allora sì che si potevano aprire le danze.
Per mia nonna era un momento sacro e la sacralità consisteva nel fatto che, come accade per tutto ciò che è sacro, nessuno può convincerti del contrario o dell'inutilità di una certa cosa. Ma non solo: il rituale rompeva il quotidiano e ci si preparava al grande sacrificio già dalle 4 del mattino.
Per non perdermi un solo passaggio di questi bei momenti dormivo coi miei nonni e il primo ad alzarsi era mio nonno che cominciava ad accendere il fuoco. In campagna vi era solo l'essenziale e sotto il letto nonna aveva nascosto tutte le bontà della terra, un vero bottino da portare poi a casa.
Una colazione insolita, quella che nonno mi preparava: pane e fichi e come si dice dalle nostre parti «...E sai cosa ti mangi».
Nel frattempo nonna si alzava e preparava tutti quegli stracci che servivano per avvolgere le bottiglie durante la pastorizzazione.
Io ero piccola ma anche i più piccoli dovevano fare la loro parte perché la produzione la si misurava in quintali e doveva bastare per un intero inverno e per più famiglie.
Quando arrivavano all'alba gli altri familiari cominciava la catena di montaggio e ci si affrettava perché fino al tramonto tutto dovesse filare liscio come l'olio.
Nonna diceva che le cose buone costano fatica e che era proibito lamentarsi. Faceva caldo e stare al mattino, ad agosto, davanti ad un pentolone bollente non era certo il massimo della goduria ma la missione andava compiuta, pena la doppia mansione l'anno successivo.
Le bottiglie verdi, lavate e lustrate per permettere una perfetta conservazione, venivano pian piano raccolte durante l'inverno e depositate negli stanzini. I pomodori, lavati con cura, erano pronti per l'ebollizione e dopo averli scolati cominciava il passaggio più bello: i pomodori scaldati passavano nella macchina a manovella. Io restavo incantata ad osservare questa macchina che da un lato buttava fuori la buccia del pomodoro già spremuto e disidratato e dall'altro una passata liscia, densa e bollente dal profumo intenso pronta per essere imbottigliata.
Era bello chinarsi da piccoli in quelle grandi tinozze e raccogliere la salsa con i mestoli. Le mani dopo un po' cominciavano a bruciare e ti imbrattavi dalla testa ai piedi ma se non ti sporcavi passavi per disertore.
Alla fine le bottiglie venivano riposte in un fusto altissimo di ferro, avvolte da stracci e ricoperte di acqua pronte per il bagnomaria. Ed il capolavoro era terminato.
Quelle bottiglie, una volta riposte a casa nello stanzino, erano oggetto di venerazione da parte di mia nonna. E se andavi a trovarla ti portava nello stanzino e te le mostrava come fossero cimeli in una teca di vetro. E le capovolgeva continuamente per controllarne la consistenza. E se la salsa non era buona avevi rovinato le provviste per un anno intero.
Le provviste avevano un senso profondo, diverse dalla farina che abbiamo accantonato nelle nostre dispense durante la quarantena. Per dare valore ad una provvista devi capire il senso della finitezza delle cose, di una "libertà vigilata" che in qualsiasi momento può trasformarsi in privazione vera e totale.
La disponibilità di cibo, in realtà, a noi non è mai mancata, neanche a marzo quando pensavamo che una catastrofe dovesse abbattersi sulle nostre teste e che saremmo stati testimoni di una storia inedita e fantascientifica.
Non abbiamo mai smesso di spingere il nostro carrello della spesa e di riempirlo di cose che non hanno più stagionalità. E quando, oggi, metto nel carrello della spesa una bottiglia di salsa, il mio pensiero va a quei giorni, lontani, e, come paralizzata, avverto che tutto l'essenziale si è conservato intatto e mi riapproprio di quei legami che pensavo persi per sempre. Come Proust avverto "il rumore delle distanze traversate" e proseguo il cammino verso casa sapendo che per un buon piatto di pasta serve una salsa fatta con cura, pazienza e condita con nostalgia.
Sì, fare la salsa era una missione da compiere e tutti i componenti della famiglia, dal più grande al più piccolo, venivano chiamati a raccolta e posti in fila per la scelta del ruolo che solo i nonni potevano assegnare.
Le cose belle e cariche di senso accadono sempre in un periodo circoscritto della nostra vita e per fortuna non si ripetono all'infinito. Perché poi si possano raccontare e parlare di esse come storie di altri tempi, archetipi di felicità che tornano in mente quando il tempo si annoda su se stesso, perde i suoi contorni come un quadro che ha perso la sua cornice e non sai più dove comincia e dove finisce un ritratto.
Questo racconto ha, invece, dei contorni netti e precisi, una storia cristallizzata come la casa che la contiene. Dove non devi spostare nulla, dove potresti anche camminarci al buio perché sai benissimo come orientarti.
Per noi pugliesi la ritualità parte sempre dalla scelta del pomodoro perché il pomodoro per noi è cosa seria. Esistono tantissime varietà di pomodori ma nonna ne voleva solo uno, il fiaschetto di Fasano, una vera delizia, e quando il prezzo al mercato calava allora sì che si potevano aprire le danze.
Per mia nonna era un momento sacro e la sacralità consisteva nel fatto che, come accade per tutto ciò che è sacro, nessuno può convincerti del contrario o dell'inutilità di una certa cosa. Ma non solo: il rituale rompeva il quotidiano e ci si preparava al grande sacrificio già dalle 4 del mattino.
Per non perdermi un solo passaggio di questi bei momenti dormivo coi miei nonni e il primo ad alzarsi era mio nonno che cominciava ad accendere il fuoco. In campagna vi era solo l'essenziale e sotto il letto nonna aveva nascosto tutte le bontà della terra, un vero bottino da portare poi a casa.
Una colazione insolita, quella che nonno mi preparava: pane e fichi e come si dice dalle nostre parti «...E sai cosa ti mangi».
Nel frattempo nonna si alzava e preparava tutti quegli stracci che servivano per avvolgere le bottiglie durante la pastorizzazione.
Io ero piccola ma anche i più piccoli dovevano fare la loro parte perché la produzione la si misurava in quintali e doveva bastare per un intero inverno e per più famiglie.
Quando arrivavano all'alba gli altri familiari cominciava la catena di montaggio e ci si affrettava perché fino al tramonto tutto dovesse filare liscio come l'olio.
Nonna diceva che le cose buone costano fatica e che era proibito lamentarsi. Faceva caldo e stare al mattino, ad agosto, davanti ad un pentolone bollente non era certo il massimo della goduria ma la missione andava compiuta, pena la doppia mansione l'anno successivo.
Le bottiglie verdi, lavate e lustrate per permettere una perfetta conservazione, venivano pian piano raccolte durante l'inverno e depositate negli stanzini. I pomodori, lavati con cura, erano pronti per l'ebollizione e dopo averli scolati cominciava il passaggio più bello: i pomodori scaldati passavano nella macchina a manovella. Io restavo incantata ad osservare questa macchina che da un lato buttava fuori la buccia del pomodoro già spremuto e disidratato e dall'altro una passata liscia, densa e bollente dal profumo intenso pronta per essere imbottigliata.
Era bello chinarsi da piccoli in quelle grandi tinozze e raccogliere la salsa con i mestoli. Le mani dopo un po' cominciavano a bruciare e ti imbrattavi dalla testa ai piedi ma se non ti sporcavi passavi per disertore.
Alla fine le bottiglie venivano riposte in un fusto altissimo di ferro, avvolte da stracci e ricoperte di acqua pronte per il bagnomaria. Ed il capolavoro era terminato.
Quelle bottiglie, una volta riposte a casa nello stanzino, erano oggetto di venerazione da parte di mia nonna. E se andavi a trovarla ti portava nello stanzino e te le mostrava come fossero cimeli in una teca di vetro. E le capovolgeva continuamente per controllarne la consistenza. E se la salsa non era buona avevi rovinato le provviste per un anno intero.
Le provviste avevano un senso profondo, diverse dalla farina che abbiamo accantonato nelle nostre dispense durante la quarantena. Per dare valore ad una provvista devi capire il senso della finitezza delle cose, di una "libertà vigilata" che in qualsiasi momento può trasformarsi in privazione vera e totale.
La disponibilità di cibo, in realtà, a noi non è mai mancata, neanche a marzo quando pensavamo che una catastrofe dovesse abbattersi sulle nostre teste e che saremmo stati testimoni di una storia inedita e fantascientifica.
Non abbiamo mai smesso di spingere il nostro carrello della spesa e di riempirlo di cose che non hanno più stagionalità. E quando, oggi, metto nel carrello della spesa una bottiglia di salsa, il mio pensiero va a quei giorni, lontani, e, come paralizzata, avverto che tutto l'essenziale si è conservato intatto e mi riapproprio di quei legami che pensavo persi per sempre. Come Proust avverto "il rumore delle distanze traversate" e proseguo il cammino verso casa sapendo che per un buon piatto di pasta serve una salsa fatta con cura, pazienza e condita con nostalgia.