
Morte di un gettonista
Capitolo diciassettesimo
Giallo a puntate firmato dal dott. Antonio Marzano
giovedì 27 marzo 2025
L'idea di andare con il Commissario a Beirut mi turba, e non poco.
Devo essere più prudente e più umile. Giacinto ha una fiducia incomprensibile nei miei confronti, forse perché potrei essere suo padre, forse perché non ha un reale superiore esperto a cui chiedere consigli. Forse perché, in mancanza di un Vicequestore, si ritrova ad avere un'autorità, una responsabilità, e deve dare una risposta, doverosa, a tutti quelli che la attendono. E sono tanti.
Arrivato in reparto, lo sento più animato; saluto la collega Erika e la ritrovo con una faccia distrutta.
«Ciao, Erika… come va?»
«Ciao, Pasquale. Ho ricoverato tre bambini e un lattantino di tre mesi.
I bambini, due maschietti e una femminuccia, rispettivamente di quattro, sei e nove anni, hanno una broncopolmonite da aria condizionata. Il lattante, invece, è arrivato disidratato, con feci liquide, maleodoranti e con muco sanguinolento. È allattato al seno materno, non vuole prendere la soluzione glucosalina, per cui è in flebo.
Ho richiesto subito l'esame colturale delle feci.
Non credo sia nulla di serio, ma lo teniamo in flebo con glucosata, fisiologica ed elettroliti per 48 ore e vediamo come va. Inoltre, è appena arrivata una "pancia" di 37 settimane.
Irene ha detto che è a tre centimetri. Ora torno a casa. A dopo.»
«Ok, grazie.»
«Grazie a te, Pasquale.»
Saluto Rebecca.
«Dottore… hai visto? Ti stavi lamentando che il reparto è vuoto?!
Il lattantino mi fa preoccupare. È troppo pallido!»
«Ma il vaccino del rotavirus l'ha fatto?»
«Non lo so, non ho chiesto.»
«Chiedi e scrivi in cartella se l'ha fatto.»
«Va bene… ma che dite, lo facciamo un emocromo?»
«Certo, Rebecca, certo. E urgentemente.
Meno male che ci sei!»
«Dottore, non mi prendere in giro…»
«Ma no, lo dico seriamente.»
Mi sfodera un sorriso che mi conforta.
Il tempo di andare in camera e squilla il cellulare.
«Pasquale, sono io… ti disturbo?»
«Giacinto, che è successo? Mo' ci siamo appena lasciati.»
«In attesa di riunirci da te in ospedale tra un paio d'ore, ti dico di riprendere a riflettere!»
«Non ho mai smesso.»
«Pasquale, mi ha appena chiamato il dottor Fabrizio Rotaro… ti ricordi, il collega che non ti convinceva?»
«Certo che mi ricordo!» rispondo, stizzito.
«Pasquale, il medico legale ha trovato sotto l'unghia dell'indice della mano destra di Mustafà un piccolo capello rosso.
Tanto piccolo che era sfuggito alla prima osservazione. Lo stanno analizzando.»
«Hanno trovato altro?»
«E non ti sembra abbastanza?! A più tardi!»
E chiude il telefono.
Giacinto… come nei film, quando non fanno in tempo a finire di parlare che ti chiudono il telefono in faccia.
E va bene…
Un capello rosso. Finalmente un primo indizio vero. Suo non può essere, perché lui era di carnagione scura.
Ma di chi può essere, visto che non ha avuto contatti umani con nessuno? Almeno, così ci hanno raccontato tutti.
Certo, può essere di chiunque. Tuttavia, non credo che se lo sia portato da Beirut.
Ha ragione Giacinto… bisogna riflettere.
Vado a prendermi un altro caffè, visto che non c'è niente di solido da mangiare, e mi chiudo in camera.
Poi mi ricordo della pasta al forno di Anna…
«Rebecca, e la pasta al forno di mia moglie? Che fine ha fatto?»
«Ah… era di tua moglie? Puoi dirle che è proprio brava! Ne può portare un'altra!»
«L'hai fatta fuori tutta?»
«Sì, ma non da sola… la tua collega Erika mi ha dato una grossa mano.»
Ritorno in camera con il capo chino e con lo stomaco che si torce.
Un capello rosso… di una donna, magari… Hai capito, Mustafà?
Vuoi vedere che era un "lupo sordo"?
Ma no… dai…
Mi guardo allo specchio e mi dico: «Devi avere rispetto per Mustafà!»
Più della fame poté il sonno e…
Un capello rosso, liscio, serico…
E sì…
E chiudo gli occhi…
Mi lancio dal trampolino dell'Hotel Italia. Mia madre mi rincorre fino in piscina e mi riporta in camera stringendomi il padiglione auricolare dell'orecchio sinistro.
«Ma che ci vengo a fare con voi? Rimango qui con Emilia in piscina…»
E più mi dimeno, più mia madre stringe l'orecchio, fino a quando, arrivati in camera…
«Fatti la doccia e vestiti. Sul tuo letto ci sono camicia e pantaloni.»
«Mamma… Mamma… ma qui sulla camicia ci sono due buchi!»
Ho già calzato i pantaloni lunghi, quando, nell'indossare la camicia, mi accorgo che le braccia rimangono scoperte.
«Pasquale… come due buchi? La camicia nuova del viaggio?!»
Mia madre mi raggiunge, trasecolata.
«Mamma, vedi… ci sono due buchi…»
«Pasquale, ma che dici… è una camicia a mezze maniche!»
E giù una risata liberatoria.
Il congresso si teneva in un grande cinema-teatro. Era affollatissimo: signori, signore, giovani e meno giovani.
Quando, d'un tratto, mentre stringo la mano a mia sorella, vedo, tre file sopra di noi, una ragazza di spalle.
Le scendono lunghi, morbidi, lisci e setosi capelli rosso tiziano!
Lascio la mano di mia sorella, esco dalla fila e, senza avvisare i miei genitori, risalgo la scala di pietra e la raggiungo.
Chiedo permesso ai signori seduti, mi avvicino e, con voce tremante, dico:
«Ciao…»
Lei si gira. I suoi occhi vivacissimi e sorridenti mi abbracciano, e il suo «Ciao» improvviso mi stordisce.
I miei tredici anni erano stati di corse sfrenate, di calci al pallone, di sfide in bicicletta, di tiri ai tappi delle bottiglie di Coca-Cola, aranciata e gazzose; di serate estive a saltare al ciuccio lungo, a urlare alla cavallina e a lanciare la trottola con la corda.
Molto spesso, a fare a botte con i compagni di gioco, per poi correre al bar Orchidea a mangiare il gelato nocciola, caffè e panna.
All'improvviso, con la stessa forza che ci metteva mio padre a prendermi a mazzate, ero stato colpito da una mazzata ancora più potente, che mi faceva male.
Non riuscii a dire altro, ma non riuscivo neanche a staccarmi dal suo viso.
In quel ormai lontano pomeriggio di settembre del 1967, d'un tratto, stavo provando un sentimento terribile e dolorosissimo.
Poi, tornato al mio posto, mia madre mi osservò preoccupata.
«Pasquale, come stai? Che è successo?»
Alzò lo sguardo e si accorse di quella famiglia seduta sopra di noi.
Poi vide i miei occhi languidi, che non riuscivano a staccarsi da quelli della ragazza dai capelli rossi… e capì subito!
Tornato in albergo, presi carta e penna e scrissi di getto una lettera appassionata, come poi non ho più scritto per il resto della vita.
Dopo essere riuscito, ora non ricordo attraverso quali canali, a scoprire il nome, il cognome e l'indirizzo della ragazza dai capelli rossi, imbucai la lettera.
Devo essere più prudente e più umile. Giacinto ha una fiducia incomprensibile nei miei confronti, forse perché potrei essere suo padre, forse perché non ha un reale superiore esperto a cui chiedere consigli. Forse perché, in mancanza di un Vicequestore, si ritrova ad avere un'autorità, una responsabilità, e deve dare una risposta, doverosa, a tutti quelli che la attendono. E sono tanti.
Arrivato in reparto, lo sento più animato; saluto la collega Erika e la ritrovo con una faccia distrutta.
«Ciao, Erika… come va?»
«Ciao, Pasquale. Ho ricoverato tre bambini e un lattantino di tre mesi.
I bambini, due maschietti e una femminuccia, rispettivamente di quattro, sei e nove anni, hanno una broncopolmonite da aria condizionata. Il lattante, invece, è arrivato disidratato, con feci liquide, maleodoranti e con muco sanguinolento. È allattato al seno materno, non vuole prendere la soluzione glucosalina, per cui è in flebo.
Ho richiesto subito l'esame colturale delle feci.
Non credo sia nulla di serio, ma lo teniamo in flebo con glucosata, fisiologica ed elettroliti per 48 ore e vediamo come va. Inoltre, è appena arrivata una "pancia" di 37 settimane.
Irene ha detto che è a tre centimetri. Ora torno a casa. A dopo.»
«Ok, grazie.»
«Grazie a te, Pasquale.»
Saluto Rebecca.
«Dottore… hai visto? Ti stavi lamentando che il reparto è vuoto?!
Il lattantino mi fa preoccupare. È troppo pallido!»
«Ma il vaccino del rotavirus l'ha fatto?»
«Non lo so, non ho chiesto.»
«Chiedi e scrivi in cartella se l'ha fatto.»
«Va bene… ma che dite, lo facciamo un emocromo?»
«Certo, Rebecca, certo. E urgentemente.
Meno male che ci sei!»
«Dottore, non mi prendere in giro…»
«Ma no, lo dico seriamente.»
Mi sfodera un sorriso che mi conforta.
Il tempo di andare in camera e squilla il cellulare.
«Pasquale, sono io… ti disturbo?»
«Giacinto, che è successo? Mo' ci siamo appena lasciati.»
«In attesa di riunirci da te in ospedale tra un paio d'ore, ti dico di riprendere a riflettere!»
«Non ho mai smesso.»
«Pasquale, mi ha appena chiamato il dottor Fabrizio Rotaro… ti ricordi, il collega che non ti convinceva?»
«Certo che mi ricordo!» rispondo, stizzito.
«Pasquale, il medico legale ha trovato sotto l'unghia dell'indice della mano destra di Mustafà un piccolo capello rosso.
Tanto piccolo che era sfuggito alla prima osservazione. Lo stanno analizzando.»
«Hanno trovato altro?»
«E non ti sembra abbastanza?! A più tardi!»
E chiude il telefono.
Giacinto… come nei film, quando non fanno in tempo a finire di parlare che ti chiudono il telefono in faccia.
E va bene…
Un capello rosso. Finalmente un primo indizio vero. Suo non può essere, perché lui era di carnagione scura.
Ma di chi può essere, visto che non ha avuto contatti umani con nessuno? Almeno, così ci hanno raccontato tutti.
Certo, può essere di chiunque. Tuttavia, non credo che se lo sia portato da Beirut.
Ha ragione Giacinto… bisogna riflettere.
Vado a prendermi un altro caffè, visto che non c'è niente di solido da mangiare, e mi chiudo in camera.
Poi mi ricordo della pasta al forno di Anna…
«Rebecca, e la pasta al forno di mia moglie? Che fine ha fatto?»
«Ah… era di tua moglie? Puoi dirle che è proprio brava! Ne può portare un'altra!»
«L'hai fatta fuori tutta?»
«Sì, ma non da sola… la tua collega Erika mi ha dato una grossa mano.»
Ritorno in camera con il capo chino e con lo stomaco che si torce.
Un capello rosso… di una donna, magari… Hai capito, Mustafà?
Vuoi vedere che era un "lupo sordo"?
Ma no… dai…
Mi guardo allo specchio e mi dico: «Devi avere rispetto per Mustafà!»
Più della fame poté il sonno e…
Un capello rosso, liscio, serico…
E sì…
E chiudo gli occhi…
Mi lancio dal trampolino dell'Hotel Italia. Mia madre mi rincorre fino in piscina e mi riporta in camera stringendomi il padiglione auricolare dell'orecchio sinistro.
«Ma che ci vengo a fare con voi? Rimango qui con Emilia in piscina…»
E più mi dimeno, più mia madre stringe l'orecchio, fino a quando, arrivati in camera…
«Fatti la doccia e vestiti. Sul tuo letto ci sono camicia e pantaloni.»
«Mamma… Mamma… ma qui sulla camicia ci sono due buchi!»
Ho già calzato i pantaloni lunghi, quando, nell'indossare la camicia, mi accorgo che le braccia rimangono scoperte.
«Pasquale… come due buchi? La camicia nuova del viaggio?!»
Mia madre mi raggiunge, trasecolata.
«Mamma, vedi… ci sono due buchi…»
«Pasquale, ma che dici… è una camicia a mezze maniche!»
E giù una risata liberatoria.
Il congresso si teneva in un grande cinema-teatro. Era affollatissimo: signori, signore, giovani e meno giovani.
Quando, d'un tratto, mentre stringo la mano a mia sorella, vedo, tre file sopra di noi, una ragazza di spalle.
Le scendono lunghi, morbidi, lisci e setosi capelli rosso tiziano!
Lascio la mano di mia sorella, esco dalla fila e, senza avvisare i miei genitori, risalgo la scala di pietra e la raggiungo.
Chiedo permesso ai signori seduti, mi avvicino e, con voce tremante, dico:
«Ciao…»
Lei si gira. I suoi occhi vivacissimi e sorridenti mi abbracciano, e il suo «Ciao» improvviso mi stordisce.
I miei tredici anni erano stati di corse sfrenate, di calci al pallone, di sfide in bicicletta, di tiri ai tappi delle bottiglie di Coca-Cola, aranciata e gazzose; di serate estive a saltare al ciuccio lungo, a urlare alla cavallina e a lanciare la trottola con la corda.
Molto spesso, a fare a botte con i compagni di gioco, per poi correre al bar Orchidea a mangiare il gelato nocciola, caffè e panna.
All'improvviso, con la stessa forza che ci metteva mio padre a prendermi a mazzate, ero stato colpito da una mazzata ancora più potente, che mi faceva male.
Non riuscii a dire altro, ma non riuscivo neanche a staccarmi dal suo viso.
In quel ormai lontano pomeriggio di settembre del 1967, d'un tratto, stavo provando un sentimento terribile e dolorosissimo.
Poi, tornato al mio posto, mia madre mi osservò preoccupata.
«Pasquale, come stai? Che è successo?»
Alzò lo sguardo e si accorse di quella famiglia seduta sopra di noi.
Poi vide i miei occhi languidi, che non riuscivano a staccarsi da quelli della ragazza dai capelli rossi… e capì subito!
Tornato in albergo, presi carta e penna e scrissi di getto una lettera appassionata, come poi non ho più scritto per il resto della vita.
Dopo essere riuscito, ora non ricordo attraverso quali canali, a scoprire il nome, il cognome e l'indirizzo della ragazza dai capelli rossi, imbucai la lettera.