Morte di un gettonista. <span>Foto Immagine generata con AI</span>
Morte di un gettonista. Foto Immagine generata con AI
Morte di un gettonista

Capitolo Secondo

Giallo a puntate firmato dal dott. Antonio Marzano

«Mustafà, usciamo. Qui l'aria si è fatta pesante. Ti offro un caffè, vieni.»

Mustafà si sfila il camice e, un po' sorpreso, mi segue lungo le scale fino all'uscita, non senza essere stato squadrato dall'infermiera del reparto di ostetricia. Ha un'espressione indecifrabile; non capisco se sia una vittima della collega pediatra o una sua complice. Penso comunque che qui ci sia qualcosa, o più di una cosa, che non va.

Poi realizzo: nessuna voce di donna in travaglio, nessun pianto di neonato, nessun tramestio di una OSS né di un'addetta alle pulizie. Nulla. Regna il silenzio più assoluto. E va bene che siamo nel mese di luglio, ma i reparti sono vuoti, sia quello di ostetricia e ginecologia, sia quello di pediatria.

Lungo le scale non incrociamo nessuno. «Arriveranno i pazienti, spero» penso, anche perché assicurare la mia presenza in reparto e non fare niente mi destabilizza.
Di fronte all'ospedale c'è un bar e, una volta attraversata la strada, ci entriamo. È un bar luminoso e accogliente. Qui ci sono numerosi avventori, per lo più anziani, seduti intorno a un tavolino a giocare a scopa. È una visione rassicurante: temevo di essere finito nella famosa caserma del Deserto dei Tartari.

Ci sediamo a un tavolino e subito ci raggiunge una bella, giovane ed educata signorina che, cinta da un grembiule bianco lindo e pinto, ci chiede: «Cosa posso servirvi?»
Sono quasi le tredici ed è ora di pranzo. Mi rivolgo a Mustafà: «Ma in ospedale servono un pranzo al gettonista?»

E Mustafà: «Pasquale, non capire… che dire?»

«Mustafà, ti danno da mangiare in ospedale?»

«No, Pasquale, no mangiare, no bere, solo dormire in letto… duro, molto duro.»

«Azz» esclamo.

E Mustafà: «Azz? Cosa significare azz?»

«"Azz" è un termine in cui è omessa la "c" iniziale e la "o" finale» rispondo. «Hai capito? Ripeti con me: devi imparare da subito questa parola. Si utilizza in tutta Italia, da parte di persone di tutte le età, maschietti e femminucce, molte volte al giorno.»

«Ripeti ad alta voce con me: CAZZO...»
«CAZZO...»
«Bravo, bravo. Devi usare questa parola quando ti dico io!»
«Quando dici tu?» mi dice Mustafà.
«Sì, quando te lo dico io... così impari bene!»
«Va bene... cazzo!» esplode Mustafà, e io scoppio in una fragorosa risata.

Anche la banconista scoppia a ridere. «È così, signora? Dico bene? Questa parola bisogna che il collega la impari subito, o no?»
Non riesce a trattenere la risata. «Sì, ha ragione!»

«Lui è libanese; è un medico pediatra di Beirut. È naturale che non conosca la lingua italiana, perché è da poco che vive da noi. Ma questa parola la deve sapere.»
«Sì, sì, per esempio...»

«Mustafà, ora noi ordiniamo alla bella signorina: io un panino al prosciutto, una bottiglia di acqua frizzante e un caffè. E tu?»
«Io volere una focaccia piccola e una birra grande.»

La ragazza scrive e si allontana.
«Mustafà, se la signorina invece della birra ti porta la Coca Cola, tu cosa dici?»
«Io cosa dico… e che cazzo!»
Un'esplosione di risate, anche degli anziani: la signora appoggia i gomiti al bancone e la ragazza si sganascia.
E Mustafà esclama: «Perché ridere? Non capire... non capire!»

Ora però consumiamo il nostro frugale pranzo e, dopo aver pagato, rientriamo in ospedale. Ormai sono quasi le 14.

Erika ci sta aspettando, sempre incazzata. Si rivolge a me: «Vieni qui; questa è la tua camera. Qui ci sono le lenzuola. Ti devi rifare il letto e, domani mattina, devi togliere le lenzuola e la federa del cuscino: devi mettere tutto qui. E devi farlo tu... qui non ci sono servi!»

E poi si rivolge a Mustafà: «E tu? Sei tornato? Non devi venire più. Non puoi stare e non devi stare qui.»
«Ma non ti sembra di esagerare?» le dico.

«No,» risponde. «Qui comando io e voi dovete sparire.»

Va in camera, si carica lo zaino sulle spalle e va via urlando: «Ve la farò pagare cara!»
La vediamo, con un sospiro di sollievo, guadagnare l'uscita. Esausti, ci sediamo al tavolino. Poi dico: «Dimmi di te, Mustafà!»

Il collega, all'improvviso, cambia espressione: non risponde, anzi fa finta di non aver capito.
«Hai capito cosa ti ho chiesto? Da quanto tempo sei qui in Italia? Perché hai scelto l'Italia? Quanti anni hai? Sei fidanzato, sei sposato? Hai figli? Com'è la pediatria in Libano? Perché hai scelto il gettonismo? Come mai non hai scelto la pediatria ospedaliera o quella di famiglia?»
«Non capire!»

Mustafà mi guarda: non capisco se è più preoccupato, infastidito o perplesso.
«Non capire, Pasquale. Non capire.»
«Va bene,» dico, pensando che sia omertoso.
Trascorrono solo cinque minuti in un silenzio carico di tensione, quando prende dalla tasca posteriore del pantalone il portafoglio. Lo apre e tira fuori una foto. «Questa è mia famiglia!» In foto è ritratta una giovane signora con due bambini.

«Mia moglie e i miei figli!»
«Complimenti» dico. «Bravo.»
Lui si alza e, senza salutarmi, va via.
  • Antonio Marzano
  • dottor Antonio Marzano
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