Adolescente (repertorio)
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Un pediatra sul web

Anaffettività

Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Pediatra di famiglia

Nel primo pomeriggio Elio è tornato in studio accompagnato dalla madre.

«Dottore - mi dice Stefania - mio figlio... Non so come me lo vedo!»
«Cioè?»
«Ha compiuto dodici anni e non l'ho mai visto ridere e, le dirò di più: non l'ho mai visto piangere».

In effetti in un angolo remoto del cervello mi ero ripromesso di essere più attento con Elio, perché se ora Stefania seduta di fronte a me, ne parlava piuttosto convinta, io nell'osservarlo non gli avevo mai dato una connotazione sicura. "Connotazione" è un'espressione poco felice ma in effetti almeno a me dava una certa serenità vedere e sapere che Elio era sempre lo stesso. Nessun insegnante se ne era mai lamentato, e solo ora la madre aveva peso il coraggio e mi chiedeva di osservare non solo la fisicità del figlio ma soprattutto la spiritualità.

Mi tirava giù per una strada sdrucciolevole e come spesso mi succede, per non cadere, mi ritrovavo spesso a rispondere: «Suo figlio è un bel bambino sano».
Elio certo è un bambino sano eppure... Faccio un cenno della mano a Stefania di non parlare e mi rivolgo a lui: «Come stai?»

Non mi risponde, mi guarda con i suoi grandi occhi neri e profondi e sembra volere da me una risposta. La sua espressione è ferma, i lineamenti del volto sono inespressivi e rimane in silenzio: un mutismo elettivo vero o presunto, sereno o reattivo, cosciente o incosciente? Una forma poco chiara di disturbo pervasivo dello sviluppo? Mah..

«Ti piace andare a scuola?»
«Sì» mi risponde.
«Ti piace stare con i compagni? Ti piacciono le insegnanti?»
«Sì» mi risponde.
«E la tv la guardi? Ti piacciono i cartoni animati? Ti piace giocare con il cellulare? Sei tifoso di una squadra di calcio?»

Elio continua a guardarmi con aria meravigliata ed interrogativa e poi dice: «Dottore, perché mi fa tutte queste domande? Io non mi sento niente, anzi.. Come le posso dire... Non capisco perché i miei amici ridono tanto quando si fanno degli scherzi o piangono tanto quando ricevono un rimprovero. Io non provo niente. Mi lasciano indifferente tutte queste storie».
«In che senso?»
«Non lo so».

Guardo incuriosito Stefania che con un cenno del capo mi chiede se può intervenire.
Le dico di aspettare ancora.
«Elio ma tu ce l'hai una fidanzatina? Senti il cuore battere per una tua compagna di scuola?» Ha una espressione con le labbra in giù.
«Provi qualche desiderio? Hai mai sfiorato una tua coetanea?»
«Io no ma c'è una ragazza che ogni giorno si avvicina, mi parla e quando si accorge che non rispondo, tenta anche di farmi una carezza. Ma a me non piace, mi dà fastidio, mi innervosisce e mi allontano!».

La mamma è intervenuta: «Dottore, Elio quando era piccolo non ha voluto mai essere preso in braccio, strillava, poi crescendo non si è mai avvicinato per cercare una carezza, un abbraccio, tanto meno un bacio! Lui è così, è come dire un tipo chiuso. La sua espressione è immutabile».

«Stefania ma c'è qualcuno nella vostra famiglia che è così, con questo carattere?»
Stefania mi guarda con aria di diniego, ma poi...
«Ora che ci penso, mio padre che è venuto a mancare qualche anno fa, mi diceva che suo padre era così: freddo, privo di emozioni, privo di entusiasmo, o di dolore. Il nonno era così, era la disperazione della moglie: la nonna diceva sempre "Tuo nonno non lo smuove niente e nessuno!"».

Ecco. Elio è stato un bambino ed ora è un adolescente anaffettivo.

Dopo la descrizione di un caso clinico in studio credo che sia corretto scrivere della dottoressa Anna De Simone, psicologa, divulgatore di scienze e tecniche psicologiche, neurobiologia e genetica comportamentale.

«Parliamo molto di anaffettività , distanza nella coppia, distacco, freddezza emotiva ma per comprendere e "porre rimedio" a tutto questo è necessario risalire alla radice del malessere. Una infanzia avariata può innescare una catena di reazioni in grado di invalidare la vita emotiva di un adulto. Si crede che un adulto incapace di donare amore abbia ricevuto una educazione rigida ma chi soffre di dipendenza affettiva e chi tende a dare troppo se stesso ha avuto un'infanzia molto simile a chi ha difficoltà a concedersi.

Dipende da una negligenza genitoriale vissuta dal bambino come rifiuto. Se questo è perpetuato nel tempo il bambino e poi il giovane finisce per incolpare se stesso piuttosto che incolpare il genitore, per cui poi l'evoluzione emotiva può andare verso o la passività o una reattività nella quale il bambino attuerà meccanismi di difesa. L'adulto si difende così da esperienze dolorose vissute durante l'infanzia: elargisce emozioni con il contagocce, che nega in primis a se stesso. Si parla di ripiegamento emotivo o ammutinamento emotivo che richiede un lavoro paziente e doloroso. È consigliabile un percorso di psicoterapia».
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Rubrica di pediatria a cura del dottor Antonio Marzano - pediatra di famiglia

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