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Il pianto della gestante

Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Ex pediatra di famiglia

Avevo dato la mia disponibilità alla Primario della Pediatria di Policoro di svolgere il turno di guardia dal pomeriggio del 31/12/23 alle 8 del mattino del 1/1/24. Dopo tanti anni di Guardia Medica, di Guardia in Clinica Pediatrica, di Guardie in Caserma e di Guardie allo Scap, sapevo che per poter ottenere la "non guardia" la notte di Natale dovevo necessariamente dare la mia totale disponibilità per la notte dell'ultimo giorno dell'anno. E così è stato; tra l'altro la mia primaria di certo per alleviare il mio stress mi scrisse: "Marzano ci siamo organizzati con un veglione, nella grande sala di attesa, con una cena a base di salmone, caviale, zampone, lenticchie e fiumi di spumante. Brinderemo non solo tra di noi, ma anche con i sanitari del reparto di Ostetricia e di chiunque dovesse decidere di raggiungerci da altri reparti".

Io sono astemio, ma i fiumi di spumante, era una bella espressione. Il tutto mi aveva fatto sorridere, eppure aveva destato in me una certa apprensione, curiosità ed una aspettativa per una serata, nottata, alternativa ed anche perché mi sembrava un bel modo di chiudere i sette mesi di collaborazione con l'ospedale e la pediatria di Policoro.

"Sono alle soglie dei miei settant'anni, ma sento i fatti della vita ancora e sempre come un bambino." Almeno adesso non ho più motivo di nasconderlo e di pensare che "pensare" come un bambino sia un aspetto negativo del mio carattere.

Per cui raggiungo l'ospedale intorno alle 12 del 31 dicembre, salgo su in reparto al terzo piano con una certa trepidazione e mi ritrovo a respirare un'aria che nella mia mente avevo immaginata frizzante ma che invece trovo ferma, silenziosa, vuota, un'aria strana per essere l'ultimo giorno dell'anno. Varcato, attraverso la porta antipanico l'ingresso del reparto, vedo la collega cui alle ore 14 avrei dato il cambio, indaffaratissima.

Sembra posseduta da una forza indomabile. Mentre scrive in cartella, parla al telefono con il pronto soccorso, gesticola ad alta voce con le infermiere, ripete a se stessa: "Devo fare i ricoveri al computer... sì, devo fare i ricoveri... devo fare i ricoveri" il tutto mentre entra ed esce dall'infermeria.

Mi avvicino con passo felpato, la saluto, provo a chiederle: «Come stai?» e la domanda non è affatto fuori luogo e lei lo sa molto bene il perché, ma risponde: «Ho da fare, ho da fare, non è il momento».

Ho da fare: a questo punto quatto quatto guadagno l'uscita, poggio lo zaino e la borsa sul pouf di pelle e sprofondo nella poltrona, in attesa delle ore 14.

Non c'è nulla di cui mi aveva scherzosamente accennato la primario, nulla di nulla e mi ritrovo a pensare come avevo fatto tante ma tante altre volte: negli ambienti sanitari, ospedali, guardie mediche, pronto soccorso, studi medici i giorni, le ore, i minuti, nonché i sentimenti, le emozioni, i singhiozzi, le urla si ripetono sempre uguali a se stessi tutti i giorni dell'anno e di tutti gli anni.

Riprendo il giallo: l'Assassino del Commendatore dello scrittore giapponese Murakami ed attendo le ore 14. Puntuale la collega ancora trafelata vieni a salutarmi ed io entro ufficialmente nel mio ruolo di gettonista di guardia.

Dopo il suo ingresso in ascensore tutto il trambusto di cui lei mi sveva accennato sembra miracolosamente finito. Non sento voci di bambini, saluto le infermiere della pediatria rilassate, raggiungo il reparto di ostetricia per informarmi se ci fossero "pance" in attesa: «Niente dottore», niente mi rispondono. «Bene» dico.

Raggiungo la camera del medico di guardia, disfo lo zaino, rifaccio il letto e mi rituffo nella lettura. Il telefono rimane muto ed un silenzio pericoloso sento attraverso la porta.

Intorno alle 18:30 squilla il telefono e la infermiera mi dice che la cena è arrivata. Non c'era più nulla da salvare, altro che il veglione, le stelle filanti, le trombette ed i trik e trak. Raggiungo la cucina e mi ritrovo nel vassoio una porzione di riso, una fetta di polpettone, una porzione di lenticchie e la mela...

Torno in camera dopo aver ringraziato la OS che si era affettuosamente ricordata di ordinarmi la cena. Questa volta mi addormento in un silenzio assoluto.


Intorno alle 21 ci sono i primi botti, che mi svegliano, ma rimangono tutto sommato confinati piuttosto distanti e non particolarmente devastanti.


Ma intorno alle 22:30 il salone di attesa scoppia in un tramestio di passi, accompagnato da voci agitate, da urla di dolore, sbattimento di porte, invocazioni concitate di aiuto… apro la porta e vedo una gestante in pieno travaglio che si lamenta come solo una donna in travaglio si lamenta.

Si è scatenato il precipizio: accorrono infermiere dalla ostetricia e dalla pediatria che provano a rassicurare la giovane gestante. Dopo non più di 15 minuti arriva il primario ostetrico e poi l'aiuto.

«Maria! – urla bonariamente il primario –, ma da che ora stai cosi?»
«Da questa mattina alle 10».
«E perché non sei venuta subito? Perché hai aspettato tanto?»

Comunque mentre si attivavano tutti, mi avvicino alla signora e dopo essermi presentato, le chiedo se fosse primi gravida.

«No dottore. È il secondo figlio».
«Bene – le dico –, cerchi di tranquillizzarsi. Ci sono tutti e tutti per lei. Farà come ha detto il primario il cesareo, farà l'epidurale, non sentirà nulla».
«Si – singhiozza la signora Maria –, sì, lo so. Anche per il primo figlio è stato cosi».
«E allora, tranquilla».

Ma tempo 5 minuti riprende a piangere più di prima. C'è qualcosa che non capisco: non è un pianto di doglie o almeno non è solo di doglie. A questo punto mentre è in barella raggiugo il marito e lo invito a rassicurare la moglie. Lui ci prova per pochi minuti senza risultato e mentre ci raggiunge il suono dei botti di mezzanotte, guardiamo tutti l'orologio mentre scoccano le ore 24.
Buon anno! e raggiungiamo la sala operatoria dove è già tutto pronto e la giovane anestesista armeggia con la flebo e tutto il resto per l'epidurale. Io sono nella sala a fianco con l'isola neonatale pronte una volta che l'anestesia dopo le corrette manovre della collega anestesista inizia a fare effetto, aggancio lo sguardo di Maria. Gli ostetrici iniziano il taglio cesareo ma Maria continua a piangere e sembra che nulla e nessuno possa calmarla.

Dopo non più di 15 minuti ecco che il primo vagito di Giuseppe invade la sala operatoria, provo a sorridere a Maria, ma lei ha una espressione strana.


Ecco che l'ostetrico pone il neonato tra le esperte braccia della infermiera della pediatria, che lo avvolge in un panno e prima di portarlo nell'isola neonatale, indico alla infermiera di far vedere il neonato alla madre. Lo guarda, lo bacia, ma.

L'infermiera porta il bambino sotto la lampada e sul lettino dove lo avrei visitato: lo scopre ed è solo in quel momento che capisco: mi rivolgo alla mia infermiera e le dico: «Ecco perché Maria piangeva tanto».

Lei lo sapeva molto bene che per lei e per Giuseppe il 2024 inizia tutto in salita. Giuseppe presenta piede torto congenito bilaterale severo.
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