Un pediatra sul web
Medico per sempre
Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Pediatra di famiglia
giovedì 24 agosto 2023
9.22
Mi hai chiamato una settimana fa e con mia sorpresa mi hai detto che dovevi vedermi.
Sono trascorsi quattro anni, dall'ultima volta, eppure la tua voce al telefono è la stessa. Il tono è perentorio ed io, superato il primo momento di sbigottimento, rimango in silenzio, accarezzando dentro di me una sottile gioia.
«Arrivo alla Stazione Centrale di Milano domani alle 18» mi hai detto. La comunicazione si interrompe.
Per un attimo mi fermo a riflettere, ma risquilla il telefono. Sul display: la signora Gianna, lavoro! La mente naufraga in ricordi che a distanza di tanto tempo ora non mi turbano più.
In Piazza San Babila, mentre sono fermo davanti all'ingresso della chiesa, ti vedo spuntare sorridente con un vestito nero a pois bianchi che ti fascia il corpo. Il passo spedito e sicuro, la borsa bianca danza, così come danza il tuo seno libero. L'emozione è violenta: le gambe mi tremano, ma tu mi prendi per mano e mi sussurri: «Vieni andiamo!»
Ci fermiamo in Galleria dove ordini da bere anche per me: un Martini bianco e poi in Via Manzoni. L'appartamento è luminoso, con un arredamento minimale, poi in camera e lì in un attimo: voglio fare l'amore con te… Siamo in auto. Dal tuo finestrino nella calda sera di agosto vola una lucciola luminosissima, ancora più luminosa nel buio totale. Guarda, esclami, non l'avevo mai vista così da vicino. È venuta ad illuminare il nostro amore!
È un attimo, scompare e ci lascia una carezza affettuosa, romantica, in una sera d'estate.
L'ultima volta, lo ricordo il tuo corpo sinuoso, sensuale, fasciato di verde smeraldo. Attraversi la strada e mi vieni incontro avvolta da un profumo seducente. Le tue braccia al mio collo, le tue mani mi accarezzano la nuca, mi spingi verso un angolo buio di via De Amicis e mi baci sulle labbra. Gli anni trascorrono, ognuno preso da altri tormenti e non sempre d'amore: d'amore, sì!
Sdraiata sul tetto di una cabina a Jesolo, ho l'impressione che il sole caldo di fine giugno splenda solo per te e sei già abbronzata.
«Ciao, hai fatto bene a venire, spogliati, prendi un po di sole. Sei bianco come un cadavere». E si hai ragione come un cadavere innamorato. «Vieni, sdraiati qui vicino a me, riposati, rilassati». Mi accarezzi il petto e le mani scivolano fino al sesso…
Arrivo in stazione, parcheggio l'auto in doppia fila. Un triangolo di ombra di un malaticcio eucalipto mi garantisce un fugace ristoro. Ma è già ora e magari la Freccia Rossa è puntuale. Nonostante la veda ogni giorno per raggiungere il mio studio, la stazione della mia Milano mi incute un certo timore. Forse, poi, un disagio ancestrale che risale alle prime volte in cui arrivavo qui, coperto solo di dolore.
Ora sono trascorsi molti anni, mi sono integrato in questa metropoli, ho metabolizzato il mio passato e visito le mie pazienti in studio ricordando le parole incoraggianti di mio padre, quando mi disse: Sì, vai a Milano, sarai un bravo ostetrico, hai la salute, conosci il sacrificio e l'impegno. E l'ospedale sarà per te la prima casa. Vedrai nascere tanti bambini e sarai un uomo completo.
Ho deciso di non prendere moglie e ho atteso le tue telefonate, senza mai chiederti, tra una e l'altra, dove avessi e soprattutto con chi avessi speso il tuo tempo.
La vedo la Freccia Rossa arrivare e questa volta il suo primo aspetto non è minaccioso. La banchina è affollata di viaggiatori in transito. Molti sono gli studenti. Milano in questi quarantacinque anni è cambiata molto. È di certo un melting pot, eppure dentro di sé conserva la sua vocazione più autentica: lavoro, successo, denaro.
Ecco, scendi dal secondo vagone, sollevi la mano destra per un saluto e ti vedo con un vestito lungo, grigio, anonimo. Sono perplesso, ma non lo lascio vedere.
«Eccomi, come stai?»
«Io, io bene, ma tu come stai? Ti vedo diversa…»
Con il dito indice sulle labbra serrate mi fai cenno di tacere. Prendo la tua borsa, non particolarmente pesante e ci incamminiamo verso l'uscita. E mentre scendiamo le maestose scale, ti fermi sui gradini, ti avvicini e mi sussurri all'orecchio: «Sono malata!»
Il tuo sguardo non ha perso il piglio della seduzione: «Non chiedermi di fare l'amore - mi dici, mentre mi abbracci forte -, sono malata, e come tutte le volte che sia io che mio figlio siamo stati male, mi sono affidata a te. Anche questa volta, dopo tanti anni, metto la mia vita nelle tue mani. Aiutami!»
Come un vento violento, sento in tutto il corpo una scarica di adrenalina: «Sì!»
E Milano si stringe intorno a noi.
Vieni: un'altra sfida è iniziata, forse la più difficile.
Sono trascorsi quattro anni, dall'ultima volta, eppure la tua voce al telefono è la stessa. Il tono è perentorio ed io, superato il primo momento di sbigottimento, rimango in silenzio, accarezzando dentro di me una sottile gioia.
«Arrivo alla Stazione Centrale di Milano domani alle 18» mi hai detto. La comunicazione si interrompe.
Per un attimo mi fermo a riflettere, ma risquilla il telefono. Sul display: la signora Gianna, lavoro! La mente naufraga in ricordi che a distanza di tanto tempo ora non mi turbano più.
In Piazza San Babila, mentre sono fermo davanti all'ingresso della chiesa, ti vedo spuntare sorridente con un vestito nero a pois bianchi che ti fascia il corpo. Il passo spedito e sicuro, la borsa bianca danza, così come danza il tuo seno libero. L'emozione è violenta: le gambe mi tremano, ma tu mi prendi per mano e mi sussurri: «Vieni andiamo!»
Ci fermiamo in Galleria dove ordini da bere anche per me: un Martini bianco e poi in Via Manzoni. L'appartamento è luminoso, con un arredamento minimale, poi in camera e lì in un attimo: voglio fare l'amore con te… Siamo in auto. Dal tuo finestrino nella calda sera di agosto vola una lucciola luminosissima, ancora più luminosa nel buio totale. Guarda, esclami, non l'avevo mai vista così da vicino. È venuta ad illuminare il nostro amore!
È un attimo, scompare e ci lascia una carezza affettuosa, romantica, in una sera d'estate.
L'ultima volta, lo ricordo il tuo corpo sinuoso, sensuale, fasciato di verde smeraldo. Attraversi la strada e mi vieni incontro avvolta da un profumo seducente. Le tue braccia al mio collo, le tue mani mi accarezzano la nuca, mi spingi verso un angolo buio di via De Amicis e mi baci sulle labbra. Gli anni trascorrono, ognuno preso da altri tormenti e non sempre d'amore: d'amore, sì!
Sdraiata sul tetto di una cabina a Jesolo, ho l'impressione che il sole caldo di fine giugno splenda solo per te e sei già abbronzata.
«Ciao, hai fatto bene a venire, spogliati, prendi un po di sole. Sei bianco come un cadavere». E si hai ragione come un cadavere innamorato. «Vieni, sdraiati qui vicino a me, riposati, rilassati». Mi accarezzi il petto e le mani scivolano fino al sesso…
Arrivo in stazione, parcheggio l'auto in doppia fila. Un triangolo di ombra di un malaticcio eucalipto mi garantisce un fugace ristoro. Ma è già ora e magari la Freccia Rossa è puntuale. Nonostante la veda ogni giorno per raggiungere il mio studio, la stazione della mia Milano mi incute un certo timore. Forse, poi, un disagio ancestrale che risale alle prime volte in cui arrivavo qui, coperto solo di dolore.
Ora sono trascorsi molti anni, mi sono integrato in questa metropoli, ho metabolizzato il mio passato e visito le mie pazienti in studio ricordando le parole incoraggianti di mio padre, quando mi disse: Sì, vai a Milano, sarai un bravo ostetrico, hai la salute, conosci il sacrificio e l'impegno. E l'ospedale sarà per te la prima casa. Vedrai nascere tanti bambini e sarai un uomo completo.
Ho deciso di non prendere moglie e ho atteso le tue telefonate, senza mai chiederti, tra una e l'altra, dove avessi e soprattutto con chi avessi speso il tuo tempo.
La vedo la Freccia Rossa arrivare e questa volta il suo primo aspetto non è minaccioso. La banchina è affollata di viaggiatori in transito. Molti sono gli studenti. Milano in questi quarantacinque anni è cambiata molto. È di certo un melting pot, eppure dentro di sé conserva la sua vocazione più autentica: lavoro, successo, denaro.
Ecco, scendi dal secondo vagone, sollevi la mano destra per un saluto e ti vedo con un vestito lungo, grigio, anonimo. Sono perplesso, ma non lo lascio vedere.
«Eccomi, come stai?»
«Io, io bene, ma tu come stai? Ti vedo diversa…»
Con il dito indice sulle labbra serrate mi fai cenno di tacere. Prendo la tua borsa, non particolarmente pesante e ci incamminiamo verso l'uscita. E mentre scendiamo le maestose scale, ti fermi sui gradini, ti avvicini e mi sussurri all'orecchio: «Sono malata!»
Il tuo sguardo non ha perso il piglio della seduzione: «Non chiedermi di fare l'amore - mi dici, mentre mi abbracci forte -, sono malata, e come tutte le volte che sia io che mio figlio siamo stati male, mi sono affidata a te. Anche questa volta, dopo tanti anni, metto la mia vita nelle tue mani. Aiutami!»
Come un vento violento, sento in tutto il corpo una scarica di adrenalina: «Sì!»
E Milano si stringe intorno a noi.
Vieni: un'altra sfida è iniziata, forse la più difficile.