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Un pediatra sul web
Racconto
Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Ex pediatra di famiglia
venerdì 7 febbraio 2025
La ragazza si accasciò stremata sul freddo pavimento di chianche di pietra e, mentre esalava l'ultimo respiro...
Ero pronto, nel giugno del 1973, ad affrontare il mio primo scoglio universitario: l'esame di Biologia e Zoologia Generale.
Il primo anno era trascorso serenamente tra la frequentazione delle lezioni di Istologia, la lettura del primo libro di Anatomia Umana Normale e lo studio della Biologia. Il clima era sereno, sembrava che tutto, con il giusto impegno, sarebbe andato bene.
La sala dove si tenevano gli esami era affollata di studenti del primo anno e, nel salutarci, ci sostenevamo a vicenda.
Il professore aveva gli statini sulla scrivania; accanto c'era il grande registro dove l'assistente scriveva puntuale le domande e, infine, il rigo dove lo studente firmava con nome e cognome l'esame superato e il voto che il professore, ad alta voce, esprimeva.
Ero sereno… tranne che per il breve capitolo della genetica, argomento per me ostico fin dal primo momento. Per il resto mi sentivo padrone della materia.
«Antonio Marzano!» urlò il professore, e io mi catapultai alla sedia.
Dopo un doveroso «Buongiorno», il professore esclamò ad alta voce:
«Botriocefalo!»
Lo disse con un tono tale che mi sembrò un'offesa.
Ma fu solo un attimo, perché questo parassita lo conoscevo molto bene. Mi aveva anche affascinato nello studio e, tra l'altro, mi aveva fatto sentire già un inizio di medico quando lo avevo memorizzato.
Iniziai il mio racconto, preciso, puntuale, sicuro, e mi accorsi dell'espressione convinta del professore.
La seconda domanda verteva su un argomento che non ricordo, ma nel quale non avevo la stessa preparazione; la terza domanda si riferiva ad altro che comunque conoscevo, ma di cui non ero padrone come per la prima domanda.
Finito l'esame, il professore disse:
«Ventisei!»
«Grazie, professore.»
Firmai lo statino, firmai il registro e il libretto su cui avrebbe apposto la firma e il voto. Non mi era stato ancora consegnato dalla Segreteria, visto il numero degli iscritti al primo anno di Medicina. Mi girai sui tacchi e raggiunsi soddisfatto l'uscita.
L'esordio era stato positivo.
Raggiunsi la macchina, credo allora avessi una 112 gialla a gas metano, e tornai a casa.
Raccontai tutto a mio padre e mi accorsi che la sua espressione, pur se non era felice, era comunque soddisfatta.
Poi andammo in soggiorno e disse:
«Tonio, siediti… ma tu hai capito che cos'è il botriocefalo?»
Non capivo se fosse una domanda a trabocchetto o una domanda sincera.
«Sì» risposi. «Sì, ho capito… se mi ha promosso è stato per il botriocefalo.»
«Bene» disse mio padre. «E allora ti racconto questa storia.
Era l'inverno del 1940. La casa del nonno era ancora in via San Rocco a Bitetto. Ero al primo anno di Medicina a Bari e le condizioni igienico-sanitarie erano precarie. Era scoppiata la guerra e l'alimentazione, già modesta, era diventata insufficiente. Avevo diciannove anni ed ero pieno di orgoglio e volontà di riuscire.
Accanto alla nostra abitazione a piano terra c'era una famiglia come la nostra, composta da un padre contadino, una madre e tre figli: due maschi, che accompagnavano il padre in campagna partendo con la mula e il traino al mattino presto, e una ragazza, graziosa, ma sempre pallida, malaticcia. Sembrava una ragazza senza energia.
La vedevo ogni giorno. Eravamo coetanei e, mentre io la mattina correvo alla stazione per prendere il treno per Bari, la mia amica era sempre seduta sulla sedia, magra, pallida e sofferente.
Non so se l'avessero mai fatta visitare, né se chi di dovere avesse mai fatto una diagnosi.
Certo è che, durante quell'inverno del '40, la salute della mia amica peggiorava giorno dopo giorno, senza che nessuno potesse fare nulla per lei.
Fino a quando una sera, mentre stavo studiando, credo fosse febbraio, la mamma della ragazza venne a bussare alla nostra porta di casa esclamando:
«Venite, venite… Graziella sta male… venite… sta morendo!»
Sia io, mia sorella e mia madre ci precipitammo in casa sua e ci trovammo di fronte a uno spettacolo penoso.
Mentre Graziella esalava l'ultimo respiro, ormai priva di forze, cadendo sul freddo pavimento di chianche di pietra, dal fondo della sua gonna comparve la testa e poi il lungo corpo di circa otto metri di quello che poi capii essere un pericoloso parassita intestinale: il botriocefalo, che, parassitando la sventurata Graziella, ne aveva alla fine causato la morte.
Tonio, per fortuna ora questo parassita è meno frequente da noi, per una serie di motivi: condizioni igienico-sanitarie generali nettamente migliorate, alimentazione adeguata per tutti, adulti e bambini, possibilità di fare diagnosi e poi di terapia corretta e adeguata.
E tuttavia non dimenticare, quando sarai medico, di pensare, di fronte a un bambino ma anche a un adulto sempre astenico, anemico e con un'espressione sempre sofferente, alla parassitosi intestinale.»
«Grazie, Pa» dissi.
Poi corsi in macchina per raggiungere, contento, chi mi aspettava.
Ma la festa non durò a lungo e non fu certo responsabilità del botriocefalo.
Ero pronto, nel giugno del 1973, ad affrontare il mio primo scoglio universitario: l'esame di Biologia e Zoologia Generale.
Il primo anno era trascorso serenamente tra la frequentazione delle lezioni di Istologia, la lettura del primo libro di Anatomia Umana Normale e lo studio della Biologia. Il clima era sereno, sembrava che tutto, con il giusto impegno, sarebbe andato bene.
La sala dove si tenevano gli esami era affollata di studenti del primo anno e, nel salutarci, ci sostenevamo a vicenda.
Il professore aveva gli statini sulla scrivania; accanto c'era il grande registro dove l'assistente scriveva puntuale le domande e, infine, il rigo dove lo studente firmava con nome e cognome l'esame superato e il voto che il professore, ad alta voce, esprimeva.
Ero sereno… tranne che per il breve capitolo della genetica, argomento per me ostico fin dal primo momento. Per il resto mi sentivo padrone della materia.
«Antonio Marzano!» urlò il professore, e io mi catapultai alla sedia.
Dopo un doveroso «Buongiorno», il professore esclamò ad alta voce:
«Botriocefalo!»
Lo disse con un tono tale che mi sembrò un'offesa.
Ma fu solo un attimo, perché questo parassita lo conoscevo molto bene. Mi aveva anche affascinato nello studio e, tra l'altro, mi aveva fatto sentire già un inizio di medico quando lo avevo memorizzato.
Iniziai il mio racconto, preciso, puntuale, sicuro, e mi accorsi dell'espressione convinta del professore.
La seconda domanda verteva su un argomento che non ricordo, ma nel quale non avevo la stessa preparazione; la terza domanda si riferiva ad altro che comunque conoscevo, ma di cui non ero padrone come per la prima domanda.
Finito l'esame, il professore disse:
«Ventisei!»
«Grazie, professore.»
Firmai lo statino, firmai il registro e il libretto su cui avrebbe apposto la firma e il voto. Non mi era stato ancora consegnato dalla Segreteria, visto il numero degli iscritti al primo anno di Medicina. Mi girai sui tacchi e raggiunsi soddisfatto l'uscita.
L'esordio era stato positivo.
Raggiunsi la macchina, credo allora avessi una 112 gialla a gas metano, e tornai a casa.
Raccontai tutto a mio padre e mi accorsi che la sua espressione, pur se non era felice, era comunque soddisfatta.
Poi andammo in soggiorno e disse:
«Tonio, siediti… ma tu hai capito che cos'è il botriocefalo?»
Non capivo se fosse una domanda a trabocchetto o una domanda sincera.
«Sì» risposi. «Sì, ho capito… se mi ha promosso è stato per il botriocefalo.»
«Bene» disse mio padre. «E allora ti racconto questa storia.
Era l'inverno del 1940. La casa del nonno era ancora in via San Rocco a Bitetto. Ero al primo anno di Medicina a Bari e le condizioni igienico-sanitarie erano precarie. Era scoppiata la guerra e l'alimentazione, già modesta, era diventata insufficiente. Avevo diciannove anni ed ero pieno di orgoglio e volontà di riuscire.
Accanto alla nostra abitazione a piano terra c'era una famiglia come la nostra, composta da un padre contadino, una madre e tre figli: due maschi, che accompagnavano il padre in campagna partendo con la mula e il traino al mattino presto, e una ragazza, graziosa, ma sempre pallida, malaticcia. Sembrava una ragazza senza energia.
La vedevo ogni giorno. Eravamo coetanei e, mentre io la mattina correvo alla stazione per prendere il treno per Bari, la mia amica era sempre seduta sulla sedia, magra, pallida e sofferente.
Non so se l'avessero mai fatta visitare, né se chi di dovere avesse mai fatto una diagnosi.
Certo è che, durante quell'inverno del '40, la salute della mia amica peggiorava giorno dopo giorno, senza che nessuno potesse fare nulla per lei.
Fino a quando una sera, mentre stavo studiando, credo fosse febbraio, la mamma della ragazza venne a bussare alla nostra porta di casa esclamando:
«Venite, venite… Graziella sta male… venite… sta morendo!»
Sia io, mia sorella e mia madre ci precipitammo in casa sua e ci trovammo di fronte a uno spettacolo penoso.
Mentre Graziella esalava l'ultimo respiro, ormai priva di forze, cadendo sul freddo pavimento di chianche di pietra, dal fondo della sua gonna comparve la testa e poi il lungo corpo di circa otto metri di quello che poi capii essere un pericoloso parassita intestinale: il botriocefalo, che, parassitando la sventurata Graziella, ne aveva alla fine causato la morte.
Tonio, per fortuna ora questo parassita è meno frequente da noi, per una serie di motivi: condizioni igienico-sanitarie generali nettamente migliorate, alimentazione adeguata per tutti, adulti e bambini, possibilità di fare diagnosi e poi di terapia corretta e adeguata.
E tuttavia non dimenticare, quando sarai medico, di pensare, di fronte a un bambino ma anche a un adulto sempre astenico, anemico e con un'espressione sempre sofferente, alla parassitosi intestinale.»
«Grazie, Pa» dissi.
Poi corsi in macchina per raggiungere, contento, chi mi aspettava.
Ma la festa non durò a lungo e non fu certo responsabilità del botriocefalo.