Dolore addominale (repertorio)
Dolore addominale (repertorio)
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Un dolore di pancia

Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Ex pediatra di famiglia

A differenza di altre volte in cui sono in anticipo, quel tardo pomeriggio sono in perfetto orario, e ciò mi mette già a disagio. Ogni volta che arrivo, e continuo ad arrivare — non so ancora per quanto tempo —, ho sempre bisogno di rassettare la mente. Ho sentito questo bisogno fin dalla prima volta. Ho scoperto che il percorso in moto è quello che più si confà alla mia natura irrequieta, e per tutto il tragitto il pensiero paranoico gira e rigira su se stesso, trovando pace solo quando attraverso l'ingresso dell'ospedale. Eppure, non è cambiato nulla. Sento disagio, irrequietezza, ansia.

Mi ritrovo poi solo in camera, solo in medicheria, solo nelle stanze dei piccoli pazienti, solo in ostetricia. Solo e con la responsabilità non solo di ciò che faccio, ma anche di ciò che dico. Perché quello che dico lo dico alle infermiere e agli infermieri, che soppesano ogni mia espressione verbale e non verbale.

«Ciao Antonio. Ti lasciamo le consegne - mi dicono le colleghe -. Sono nati due bambini questa mattina e stanno bene. Sono già con le rispettive madri. Ci sono solo tre bambini ricoverati: due maschietti con bronchite a focolaio e una ragazzina con diarrea. Il protocollo SEU lo abbiamo già avviato. Tranquillo. Buon lavoro e buona notte».
Sono passate da poco le venti.

Tempo dieci minuti e l'infermiera mi chiama per una prima visita. Subito dopo ne arriva un'altra e poi un'altra ancora. Niente di cui riferire, niente di cui preoccuparsi, normale routine.

Percorro pochi metri, attraverso la porta e mi ritrovo in ostetricia. Mi rivolgo all'infermiera di turno per sapere se ci sono gravide in attesa; «No - mi risponde -. Tutto tranquillo, per il momento».

Ritorno in medicheria e l'infermiera mi dice che ha telefonato il dottore, voleva parlare con il medico di guardia. Ha detto che richiamerà a breve.
Infatti, cinque minuti dopo, squilla il telefono in medicheria: «Buonasera, sei il pediatra di guardia?»

«Sì» rispondo.
«Sono il collega... Buonasera».
«Chi sei?»
«Sono Antonio Marzano, di Bisceglie».
«Ah, sì, ricordo, il giorno in cui sei venuto per la prima volta. Ascolta: da te è ricoverata una ragazzina di cui conosco la famiglia. L'ho vista quando è arrivata in pronto soccorso. Si è presentata con dolori addominali e diarrea. Mi puoi dire come sta?»
«Sono appena arrivato - rispondo -. La collega mi ha detto che è in flebo, che hanno avviato il protocollo SEU. Ora mi documento, la visito e ti richiamo».
«Ok, grazie».

L'infermiera mi porge la cartella clinica, ma non c'è nulla di serio, solo la richiesta delle indagini di routine. A questo punto vado a visitarla. Mi presento, faccio qualche domanda alla paziente, che ha un aspetto sereno e non sofferente, e alla madre, riguardo a un eventuale errore alimentare della figlia. Le risposte, come sempre, sono reticenti. Solo al mio insistere emerge che la figlia, una settimana prima, aveva avuto la brillante idea di prepararsi un uovo al tegamino. Ma l'uovo era più crudo che cotto, non aveva lavato il guscio prima di romperlo, e una piccola parte dello stesso era caduta nel tegamino. Lei aveva mangiato il tutto. L'anamnesi suggeriva una salmonellosi, per cui con la terapia antibiotica sarebbe guarita subito e bene. Prima di congedarmi, la visito, le palpo l'addome: è trattabile e non dolente.

«Buona notte» dico.

Richiamo il collega e gli riferisco tutto, tranquillizzandolo. La comunicazione è breve e si conclude con un arrivederci.

Durante la notte mi chiamano per un parto spontaneo. Tutto fila liscio, e il giorno dopo ritorno a casa.
Non porto nulla con me: né dubbi, né timori, né altro. Un turno normale.

A distanza di sei giorni, torno in ospedale, questa volta di mattina. Appena varco la soglia della medicheria, vedo la mamma della bambina. Aggrotto le sopracciglia e le chiedo: «Siete ancora ricoverati?»
«Sì» mi risponde la signora.
«E sua figlia come sta?»
«Male. Ha diarrea mucosanguinolenta e dolori addominali».
Mi raggiunge il primario, il dottor Paternostro, e mi dice: «Abbiamo programmato una colonscopia che farà tra poco. C'è qualcosa che non va; la ragazzina sta male, anzi, sta sempre peggio. Le analisi non hanno chiarito il quadro clinico e la terapia antibiotica non ha prodotto nessun beneficio».
«Allora pensi a...?»
«Sì, una malattia cronica intestinale».

Non dico niente. Il sospetto diagnostico è così severo, in una bambina non ancora adolescente, che rimango in uno stordito silenzio.

Mezz'ora dopo la paziente viene portata dal gastroenterologo ecografista, un medico di grande esperienza e capacità. La giovane paziente viene anestetizzata, girata su un fianco, e il collega procede alla colonscopia. La visualizzazione dell'intestino, iniziando a ritroso dal retto, poi il sigma, e poi il colon discendente, è un'esperienza per me straordinaria. Osservo la prudenza e la competenza del collega. Mentre guardo tutto sul grande monitor in alto, colpito da una visione che a tratti appare molto diversa rispetto ad altre sezioni dell'intestino, mi faccio coraggio e, nel silenzio assoluto dei colleghi anestesista e primario pediatra, alla presenza dell'infermiera e della mamma della bambina, dico: «Collega, puoi dirmi cosa vedi?»

A quel punto, anche lui, evidentemente impressionato da ciò che osserva, mentre si sofferma sulle aree della mucosa particolarmente arrossate e infiammate, risponde: «Collega, guarda, faccio un piccolo prelievo di questa mucosa. Lo vedete tutti: la ragazzina ha molti tratti della mucosa infiammati; si tratta di una severa colite ulcerosa».

Il silenzio di attesa si trasforma in uno di sgomento. Nella mia mente, non riesco a darmi una spiegazione di come, con un'anamnesi familiare negativa, la ragazzina a dodici anni abbia già sviluppato la colite ulcerosa. E poi... dodici anni.

Con il referto scritto dal gastroenterologo, ritorniamo in medicheria. Prendo un caffè e mi eclisso: ho bisogno di stare da solo. Completamente solo.
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