Un pediatra sul web
Una gelida serata
Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Ex pediatra di famiglia
venerdì 13 settembre 2024
Dopo otto ore di viaggio, eravamo arrivati a Trieste in un gelido pomeriggio di febbraio. Questa è una storia vera, come tutte le altre, ma che avevo in parte rimosso. Rimosso perché il comportamento della mia collega del pronto soccorso dell'ospedale Cattinara di Trieste l'avevo percepito come del tutto scorretto. Solo ora, dopo tanto tempo, ho capito che "tutto sommato, senza che lei se ne sia realmente resa conto, è stato meglio così".
Eravamo in albergo intorno alle 20:30. Rifocillati a casa dei ragazzi dopo il lungo viaggio di otto ore, in un giorno di neve, eravamo pronti per un meritato riposo. Giuseppe lo avremmo salutato il giorno dopo, perché ci aveva avvisato che, con un gruppo di amici e colleghi di Università, sarebbe andato a Muggia per il Carnevale. Eravamo solo preoccupati perché il freddo era intenso, sostenuto da un vento di Bora che sembrava trapassare anche le nostre pur pesanti giacche a vento.
Squilla il mio cellulare e leggo: Giù.
«Ciao Giù, che è successo?»
«Ciao pa', l'ambulanza mi sta portando all'ospedale di Cattinara. Vieni subito». E chiude la comunicazione.
«Che è successo?» chiede mia moglie.
«Dobbiamo andare a Cattinara, in ospedale, era Giù. Ma... non lo so, ha chiuso subito». Ci rivestiamo in fretta e, una volta alla reception, chiedo di chiamarci un taxi. Sono le 21. Il taxi arriva subito e, in pochi minuti, salendo tra le erte di Trieste, ci porta all'ingresso del pronto soccorso. Entriamo. Giù non è ancora arrivato. L'ansia cresce, ma poi, razionalmente, penso: se ha telefonato, non deve essere successo nulla di grave. Il freddo è terribile, tanto che non riesco a stare più di due minuti fuori. Finalmente arriva l'ambulanza: Giù scende con le proprie gambe, sorretto da un infermiere. Ci avviciniamo e, rassicurato dalla lucidità di nostro figlio, ci accorgiamo che ha il viso gonfio. Ha un vasto ematoma e il naso, oltre che gonfio, è completamente spostato. Giuseppe non dice nulla, mentre l'infermiere dell'ambulanza lo consegna all'infermiere del pronto soccorso.
«Siete i genitori?» ci chiede l'infermiere.
«Sì».
«Accomodatevi lì. Non potete entrare».
Mia moglie sta per replicare, ma io le faccio cenno di tacere, perché funziona così. Passano circa due ore e, nel frattempo, arrivano altre ambulanze. Io sono relativamente tranquillo, anche se non mi spiego il motivo di quel trauma facciale. Certo, il naso si è rotto, speriamo che non ci siano ematomi alle orbite. Mia moglie mantiene un silenzio carico di ansia. Io mi stringo le braccia intorno alla pancia perché, ogni volta che arriva qualcuno e la grande porta si apre, la Bora entra come una furia gelida.
Finalmente Giuseppe esce dal pronto soccorso e ci viene incontro.
«Giù, che è successo?»
«Poi ti dico, pa'».
La collega del pronto soccorso, attraverso il vetro, ci chiama. Io mi qualifico come padre e come medico.
«Sì - mi dice -, suo figlio ci ha detto tutto e, dopo la visita e gli esami, abbiamo refertato tutto. Ecco, questo è il referto: severo trauma facciale, con presenza di voluminoso ematoma, senza segni di fratture. Il paziente è vigile e può essere rimandato a casa».
Aggrotto le sopracciglia e chiedo:
«Naturalmente avete fatto la radiografia?»
«Sì, e... il radiologo ha detto che è tutto a posto».
«Collega, ma lo vedi come è ridotto il naso? È completamente spostato».
«Sì, lo vedo... ma il radiologo ha scritto che non c'è niente».
La risposta è talmente assurda che preferisco tacere.
«Ma un controllo dall'otorino si può avere?»
«Collega, è tardi. Non c'è l'otorino di guardia di notte, è solo reperibile. E poi fa freddo».
«Fa freddo?»
«Sì. Ti conviene portare via tuo figlio. Magari domani torna, sarà visitato dall'otorino, ricoverato e, dopo qualche giorno, operato. Ci vorrà non meno di una settimana».
Mia moglie sgrana gli occhi, Giuseppe tace e io dico: «Andiamo via!» Guardo la collega che, sollevata, ci saluta.
In taxi, dico a Giuseppe, che ora inizia a lamentarsi: «Ora andiamo in albergo, ti fai una bella dormita e domani mattina torniamo a Bisceglie».
Mia moglie mi guarda stranita: Dobbiamo risolvere il problema, bene e nel minore tempo possibile».
Il giorno dopo, usciti dal Savoia, raggiungiamo la Eos; la bora è così violenta che dobbiamo afferrarci alla segnaletica verticale per non cadere.
Giuseppe ha dormito ed è riuscito a mandare giù la colazione. Ora siamo in auto e, sommessamente, ci lasciamo alla sinistra il grande golfo di Trieste. Ci sono parecchie navi all'ancora che evidentemente non possono salpare. Il clima in auto è sereno perché Giù non dice niente, fino a quando la madre gli chiede: «Allora, Giuseppe, che è successo?». E alla domanda della madre lui finalmente inizia a parlare.
«Ero con gli amici in un bar a Muggia. Fuori era troppo freddo e, in attesa dei carri di carnevale, ci siamo rifugiati nel bar. Abbiamo ordinato da bere: chi un caffè, chi un cappuccino, chi un latte caldo, chi un punch. Io ho optato per una birra. Uno dei miei amici, uno spilungone, era già nel bar; si è avvicinato e ho notato che non era molto lucido. Mi sono allontanato, ma lui, riavvicinandosi, ha colpito la mia mano destra e un po' di birra è caduta sui suoi pantaloni. Ha iniziato a gridare, dicendomi che l'avevo fatto apposta. Era fuori di sé. Voleva lo scontro fisico a tutti i costi, ma io non me la sentivo, anche perché era mezzo ubriaco: barcollava, urlava cose senza senso e, soprattutto, eravamo in un locale pubblico. A quel punto, con due amici, dopo aver pagato la consumazione, sono uscito. Lui continuava a imprecare contro di me. Dopo soli dieci metri, tra la gente che era lì in festa, mi ha raggiunto, si è messo di fronte a me e, prima che potessi difendermi, mi ha sferrato un colpo violento sulla faccia con la testa. E mentre cadevo, prima di perdere i sensi, l'ho sentito sghignazzare.»
«Ho capito. Adesso cerca di dormire, perché devo fare due telefonate.»
«Danilo, ciao, sono Antonio. Come stai? Sei in servizio?»
«Sì. Dimmi.»
E gli racconto la storia. «Ho bisogno di te. Arriverò in ospedale intorno alle 15:30. Dovrai fargli una radiografia.»
«Certo, certo, stai tranquillo. Ti aspetto.»
Danilo Loseto è un mio amico, collega radiologo, di cui seguo i figli. Un professionista preparato, serio e simpatico.
«Pasquale, ciao, come stai? Sono Tonio. Sei a Bisceglie?»
«Sì, sono appena tornato.»
E gli racconto l'accaduto. «Ho capito», mi dice. «Ti aspetto allo studio. Di' a tuo figlio cosa dovrò fare!»
Anna mi guarda con un'espressione interrogativa; è preoccupata. La rassicuro e inserisco il CD dei concerti di Chopin. «Stai tranquilla, cerca di dormire, dovremo fermarci lungo la strada per fare benzina e mangiare qualcosa.»
Alle 15 siamo in ospedale. Danilo ci viene incontro, guarda Giuseppe e chiede: «Hai il referto del collega del Cattinara?». Lui lo legge. «Non capisco...» mi fa, poi continua: «Vieni, Giuseppe.»
Tempo 15 minuti e Danilo pone la lastra sul diafanoscopio:
«Le vedi? Queste sono le tre fratture dell'osso nasale. Sono leggermente scomposte. I forami ottici sono intatti». Gli ha rotto il naso in tre parti con una botta forte. «Cosa pensi di fare?!»
«Giuseppe, ti devi operare, altrimenti rimani con il naso storto.»
«Grazie, Danilo, grazie. Lo porto da Pasquale Squeo.»
«Ma non è medico di bordo?!»
«Sì, ci aspetta in studio ora.»
Danilo ha capito, ha un'espressione di apprezzamento. «Coraggio, Giuseppe. Arrivederci.»
«Giù, ora ti spiego cosa ti farà l'otorino. Devi essere forte, devi stringere i denti. Andrà tutto bene.»
«Ciao Pasquale, eccoci qua. Questa è la lastra che in camera caritatis Danilo mi ha appena dato.»
Pasquale la osserva con attenzione. Poi dice: «Giuseppe, sei pronto?»
«Sì!»
Mentre Pasquale gli accarezza il naso, ecco che con il pollice e l'indice della mano destra stringe i primi due monconi ossei fino a sentire il tac delle ossa. Poi passa al successivo, ancora una pressione forte e decisa fino al secondo tac. Tempo due minuti e passa al terzo. Giuseppe sta sudando, è pallido.
«Coraggio Giù, è l'ultimo.»
Pasquale, con la sua mano destra esperta e decisa, ripete la manovra: lo fa per due volte fino al terzo tac. Poi si rivolge a Giù: «Come stai? Io ho finito. Ti ho messo a posto il naso. Tranquillo.»
«Pasquale, sei un maestro», gli dico.
«Grazie», dice Giuseppe, e sorreggo mio figlio mentre raggiungiamo la macchina.
«Giù, sei stato veramente forte.»
«Sì, papà... sì! Il problema è risolto.»
Naturalmente ci fu un seguito lungo e penoso. Denuncia ai carabinieri, valutazione del danno alla luce di tutta la documentazione prodotta e delle certificazioni del collega radiologo e dell'otorino. Un amico magistrato mi consigliò di non ritirare la denuncia, perché solo il denaro esborso sarebbe stato l'unico modo per far riflettere il ragazzo.
Poi arrivò la telefonata dalla madre del ragazzo. Lei ci chiese di ritirare la denuncia, si scusò ripetutamente e ci disse che per loro quella cifra sarebbe stata un grosso problema, visto che il marito era un ferroviere, che lei era casalinga, che avevano un altro figlio e che sarebbe stata macchiata anche la fedina penale. A quel punto, con un cenno d'intesa, mia moglie disse: «Va bene, signora: ritiriamo la denuncia».
Eravamo in albergo intorno alle 20:30. Rifocillati a casa dei ragazzi dopo il lungo viaggio di otto ore, in un giorno di neve, eravamo pronti per un meritato riposo. Giuseppe lo avremmo salutato il giorno dopo, perché ci aveva avvisato che, con un gruppo di amici e colleghi di Università, sarebbe andato a Muggia per il Carnevale. Eravamo solo preoccupati perché il freddo era intenso, sostenuto da un vento di Bora che sembrava trapassare anche le nostre pur pesanti giacche a vento.
Squilla il mio cellulare e leggo: Giù.
«Ciao Giù, che è successo?»
«Ciao pa', l'ambulanza mi sta portando all'ospedale di Cattinara. Vieni subito». E chiude la comunicazione.
«Che è successo?» chiede mia moglie.
«Dobbiamo andare a Cattinara, in ospedale, era Giù. Ma... non lo so, ha chiuso subito». Ci rivestiamo in fretta e, una volta alla reception, chiedo di chiamarci un taxi. Sono le 21. Il taxi arriva subito e, in pochi minuti, salendo tra le erte di Trieste, ci porta all'ingresso del pronto soccorso. Entriamo. Giù non è ancora arrivato. L'ansia cresce, ma poi, razionalmente, penso: se ha telefonato, non deve essere successo nulla di grave. Il freddo è terribile, tanto che non riesco a stare più di due minuti fuori. Finalmente arriva l'ambulanza: Giù scende con le proprie gambe, sorretto da un infermiere. Ci avviciniamo e, rassicurato dalla lucidità di nostro figlio, ci accorgiamo che ha il viso gonfio. Ha un vasto ematoma e il naso, oltre che gonfio, è completamente spostato. Giuseppe non dice nulla, mentre l'infermiere dell'ambulanza lo consegna all'infermiere del pronto soccorso.
«Siete i genitori?» ci chiede l'infermiere.
«Sì».
«Accomodatevi lì. Non potete entrare».
Mia moglie sta per replicare, ma io le faccio cenno di tacere, perché funziona così. Passano circa due ore e, nel frattempo, arrivano altre ambulanze. Io sono relativamente tranquillo, anche se non mi spiego il motivo di quel trauma facciale. Certo, il naso si è rotto, speriamo che non ci siano ematomi alle orbite. Mia moglie mantiene un silenzio carico di ansia. Io mi stringo le braccia intorno alla pancia perché, ogni volta che arriva qualcuno e la grande porta si apre, la Bora entra come una furia gelida.
Finalmente Giuseppe esce dal pronto soccorso e ci viene incontro.
«Giù, che è successo?»
«Poi ti dico, pa'».
La collega del pronto soccorso, attraverso il vetro, ci chiama. Io mi qualifico come padre e come medico.
«Sì - mi dice -, suo figlio ci ha detto tutto e, dopo la visita e gli esami, abbiamo refertato tutto. Ecco, questo è il referto: severo trauma facciale, con presenza di voluminoso ematoma, senza segni di fratture. Il paziente è vigile e può essere rimandato a casa».
Aggrotto le sopracciglia e chiedo:
«Naturalmente avete fatto la radiografia?»
«Sì, e... il radiologo ha detto che è tutto a posto».
«Collega, ma lo vedi come è ridotto il naso? È completamente spostato».
«Sì, lo vedo... ma il radiologo ha scritto che non c'è niente».
La risposta è talmente assurda che preferisco tacere.
«Ma un controllo dall'otorino si può avere?»
«Collega, è tardi. Non c'è l'otorino di guardia di notte, è solo reperibile. E poi fa freddo».
«Fa freddo?»
«Sì. Ti conviene portare via tuo figlio. Magari domani torna, sarà visitato dall'otorino, ricoverato e, dopo qualche giorno, operato. Ci vorrà non meno di una settimana».
Mia moglie sgrana gli occhi, Giuseppe tace e io dico: «Andiamo via!» Guardo la collega che, sollevata, ci saluta.
In taxi, dico a Giuseppe, che ora inizia a lamentarsi: «Ora andiamo in albergo, ti fai una bella dormita e domani mattina torniamo a Bisceglie».
Mia moglie mi guarda stranita: Dobbiamo risolvere il problema, bene e nel minore tempo possibile».
Il giorno dopo, usciti dal Savoia, raggiungiamo la Eos; la bora è così violenta che dobbiamo afferrarci alla segnaletica verticale per non cadere.
Giuseppe ha dormito ed è riuscito a mandare giù la colazione. Ora siamo in auto e, sommessamente, ci lasciamo alla sinistra il grande golfo di Trieste. Ci sono parecchie navi all'ancora che evidentemente non possono salpare. Il clima in auto è sereno perché Giù non dice niente, fino a quando la madre gli chiede: «Allora, Giuseppe, che è successo?». E alla domanda della madre lui finalmente inizia a parlare.
«Ero con gli amici in un bar a Muggia. Fuori era troppo freddo e, in attesa dei carri di carnevale, ci siamo rifugiati nel bar. Abbiamo ordinato da bere: chi un caffè, chi un cappuccino, chi un latte caldo, chi un punch. Io ho optato per una birra. Uno dei miei amici, uno spilungone, era già nel bar; si è avvicinato e ho notato che non era molto lucido. Mi sono allontanato, ma lui, riavvicinandosi, ha colpito la mia mano destra e un po' di birra è caduta sui suoi pantaloni. Ha iniziato a gridare, dicendomi che l'avevo fatto apposta. Era fuori di sé. Voleva lo scontro fisico a tutti i costi, ma io non me la sentivo, anche perché era mezzo ubriaco: barcollava, urlava cose senza senso e, soprattutto, eravamo in un locale pubblico. A quel punto, con due amici, dopo aver pagato la consumazione, sono uscito. Lui continuava a imprecare contro di me. Dopo soli dieci metri, tra la gente che era lì in festa, mi ha raggiunto, si è messo di fronte a me e, prima che potessi difendermi, mi ha sferrato un colpo violento sulla faccia con la testa. E mentre cadevo, prima di perdere i sensi, l'ho sentito sghignazzare.»
«Ho capito. Adesso cerca di dormire, perché devo fare due telefonate.»
«Danilo, ciao, sono Antonio. Come stai? Sei in servizio?»
«Sì. Dimmi.»
E gli racconto la storia. «Ho bisogno di te. Arriverò in ospedale intorno alle 15:30. Dovrai fargli una radiografia.»
«Certo, certo, stai tranquillo. Ti aspetto.»
Danilo Loseto è un mio amico, collega radiologo, di cui seguo i figli. Un professionista preparato, serio e simpatico.
«Pasquale, ciao, come stai? Sono Tonio. Sei a Bisceglie?»
«Sì, sono appena tornato.»
E gli racconto l'accaduto. «Ho capito», mi dice. «Ti aspetto allo studio. Di' a tuo figlio cosa dovrò fare!»
Anna mi guarda con un'espressione interrogativa; è preoccupata. La rassicuro e inserisco il CD dei concerti di Chopin. «Stai tranquilla, cerca di dormire, dovremo fermarci lungo la strada per fare benzina e mangiare qualcosa.»
Alle 15 siamo in ospedale. Danilo ci viene incontro, guarda Giuseppe e chiede: «Hai il referto del collega del Cattinara?». Lui lo legge. «Non capisco...» mi fa, poi continua: «Vieni, Giuseppe.»
Tempo 15 minuti e Danilo pone la lastra sul diafanoscopio:
«Le vedi? Queste sono le tre fratture dell'osso nasale. Sono leggermente scomposte. I forami ottici sono intatti». Gli ha rotto il naso in tre parti con una botta forte. «Cosa pensi di fare?!»
«Giuseppe, ti devi operare, altrimenti rimani con il naso storto.»
«Grazie, Danilo, grazie. Lo porto da Pasquale Squeo.»
«Ma non è medico di bordo?!»
«Sì, ci aspetta in studio ora.»
Danilo ha capito, ha un'espressione di apprezzamento. «Coraggio, Giuseppe. Arrivederci.»
«Giù, ora ti spiego cosa ti farà l'otorino. Devi essere forte, devi stringere i denti. Andrà tutto bene.»
«Ciao Pasquale, eccoci qua. Questa è la lastra che in camera caritatis Danilo mi ha appena dato.»
Pasquale la osserva con attenzione. Poi dice: «Giuseppe, sei pronto?»
«Sì!»
Mentre Pasquale gli accarezza il naso, ecco che con il pollice e l'indice della mano destra stringe i primi due monconi ossei fino a sentire il tac delle ossa. Poi passa al successivo, ancora una pressione forte e decisa fino al secondo tac. Tempo due minuti e passa al terzo. Giuseppe sta sudando, è pallido.
«Coraggio Giù, è l'ultimo.»
Pasquale, con la sua mano destra esperta e decisa, ripete la manovra: lo fa per due volte fino al terzo tac. Poi si rivolge a Giù: «Come stai? Io ho finito. Ti ho messo a posto il naso. Tranquillo.»
«Pasquale, sei un maestro», gli dico.
«Grazie», dice Giuseppe, e sorreggo mio figlio mentre raggiungiamo la macchina.
«Giù, sei stato veramente forte.»
«Sì, papà... sì! Il problema è risolto.»
Naturalmente ci fu un seguito lungo e penoso. Denuncia ai carabinieri, valutazione del danno alla luce di tutta la documentazione prodotta e delle certificazioni del collega radiologo e dell'otorino. Un amico magistrato mi consigliò di non ritirare la denuncia, perché solo il denaro esborso sarebbe stato l'unico modo per far riflettere il ragazzo.
Poi arrivò la telefonata dalla madre del ragazzo. Lei ci chiese di ritirare la denuncia, si scusò ripetutamente e ci disse che per loro quella cifra sarebbe stata un grosso problema, visto che il marito era un ferroviere, che lei era casalinga, che avevano un altro figlio e che sarebbe stata macchiata anche la fedina penale. A quel punto, con un cenno d'intesa, mia moglie disse: «Va bene, signora: ritiriamo la denuncia».