Viaggio nell'Infinita Bellezza
Vent’anni
Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Ex pediatra di famiglia
domenica 18 febbraio 2024
1.28
È presente nella mente e mi ritrovo ad accarezzarlo spesso questo pensiero. Ho scoperto che è l'unico modo per tenerlo a bada,come un animale feroce, perché quando ho scelto di rimuoverlo, lui mi aggredisce inaspettatamente, procurandomi ferite sempre profonde e difficilmente sanabili. E quel pomeriggio del 2004, quando scendendo da Opicina, nella culla della città, ci ritrovammo avvolti dalla calda luce di ottobre, nella piazza della Libertà, non solo non riuscimmo a proferire una parola di disapprovazione verso nostra figlia, quanto avemmo piuttosto l'impressione che la città ci stesse aspettando con il suo cielo terso, con la sua aria frizzante e con quella pace nel volto e nelle espressioni dei passanti. Quel luogo che nella mia memoria di studente è sempre stato la zona meno accogliente e più conflittuale di una città (la stazione ferroviaria) lì improvvisamente ebbe il sapore della bellezza. Sì, della bellezza ed io rimasi in un silenzio stupito.
Anche mia moglie, una volta scesa dall'auto si guardava intorno basita da tanto ordine, da tanta pulizia, da una fisiologica presenza di rumori che lì sulla rotonda sembravano il suono di una giostra che gira con una nenia infantile.
Trieste la vedevamo per la prima volta, tutti insieme e subito mi resi conto che la ragazza, non solo avrebbe speso tutte le sue energie per superare il test di ingresso alla Scuola per Interpreti e Traduttori, ma che molto probabilmente avrebbe scelto Trieste come città della sua vita.
Ed è andata proprio così!
La sua scelta è stata seguita dal ragazzo, che nella austera Università di Ingegneria ha conseguito la Laurea e a malincuore decise di lasciarla, perchè nonostante la sua quotidiana seduzione, non offriva alla sua mente razionale, ciò di cui lui aveva tanta necessità: la carriera professionale, per poi ritornarci dopo gli anni trascorsi a Kyoto.
"I figli non ti appartengono" mi dicevano fin dal primo momento i miei parenti, eppure avevo speso tutta la mia vita per loro, tutto era finalizzato a loro e loro ci stavano regalando un futuro di assenza. Sono trascorsi vent'anni anni. Ho raggiunto mia figlia e poi entrambi i figli ad ogni loro sussulto di richiesta, ho percorso migliaia di chilometri, raggiungendo Trieste in ogni momento del giorno e della notte. Ho apprezzato le sue piazze, i suoi viali,i suoi negozi, i suoi musei, i suoi ristoranti. Sono rimasto sconvolto dalla lussureggiante bellezza di Piazza Unità, dall'accoglienza del Caffè degli Specchi, dalla nobiltà dei due alberghi Savoia e Duchi d'Aosta, il primo che si affaccia sulle Rive, il secondo su Piazza Unità. Ogni volta leggevo negli occhi dei miei figli la grande soddisfazione per quella località che li stava formando non solo come professionisti ma anche come cittadini. Eppure… Eppure, ogni volta che poi ripartivamo, risalendo lungo la strada che lascia il grande golfo di Trieste sulla sinistra, un senso di scoramento ci assaliva. Un silenzio colpevole imperava in macchina e non c'era nulla che potesse rompere quel doloroso assedio.
Ricordo una volta, una delle tante volte volte, quando in una sera piovigginosa di febbraio, eravamo tutti e quattro in un ristorante a cena sulle Rive, mia moglie, triste ed esasperata da quel nostro buonismo doloroso, escamò: «Ma che ci stiamo a fare qui? Torniamo a casa!»
Un silenzio tombale scese tra di noi. Nessuno riuscì a proferire una parola, né un sussulto della voce, né uno sguardo furtivo e sperduto. Nulla… Il nulla più assoluto. È come se ognuno di noi, dal suo punto di vista, avendone uno molto diverso dall'altro, non voleva turbare quel precario equilibrio che si era faticosamente raggiunto. Lì da noi c'era l'Università, c'era il mare, c'era la casa accogliente, c'era la famiglia, c'era il sole. Sì, c'erano tutti questi elementi di vita: ma non era Trieste e soprattutto c'eravamo noi, i genitori, da cui i figli volevano separarsi.
Eppure quando in occasione dei tanti traguardi conseguiti dai figli, per una sorta di piacevole appuntamento, si ritornava tutti alla Trattoria Suban, solo allora davanti allo stinco di manzo, sì, solo allora, eravamo tutti concordi… sì, tutti concordi che… sì, meglio stare a Trieste.
Poi per nostra figlia è giunto il marito triestino e poi il nipote triestino ed io continuo a percepire questo conflitto interiore, che non ho e non so se riuscirò mai a metabolizzare. Ma poi penso alle passeggiate del nipotino a San Vito, lungo quel percorso salubre ed alberato, alle sue corse felice, al suo accento che non ha nulla della nostra Bassa Italia ed allora ringrazio il Destino e ringrazio Trieste della sua benevolenza.
Anche mia moglie, una volta scesa dall'auto si guardava intorno basita da tanto ordine, da tanta pulizia, da una fisiologica presenza di rumori che lì sulla rotonda sembravano il suono di una giostra che gira con una nenia infantile.
Trieste la vedevamo per la prima volta, tutti insieme e subito mi resi conto che la ragazza, non solo avrebbe speso tutte le sue energie per superare il test di ingresso alla Scuola per Interpreti e Traduttori, ma che molto probabilmente avrebbe scelto Trieste come città della sua vita.
Ed è andata proprio così!
La sua scelta è stata seguita dal ragazzo, che nella austera Università di Ingegneria ha conseguito la Laurea e a malincuore decise di lasciarla, perchè nonostante la sua quotidiana seduzione, non offriva alla sua mente razionale, ciò di cui lui aveva tanta necessità: la carriera professionale, per poi ritornarci dopo gli anni trascorsi a Kyoto.
"I figli non ti appartengono" mi dicevano fin dal primo momento i miei parenti, eppure avevo speso tutta la mia vita per loro, tutto era finalizzato a loro e loro ci stavano regalando un futuro di assenza. Sono trascorsi vent'anni anni. Ho raggiunto mia figlia e poi entrambi i figli ad ogni loro sussulto di richiesta, ho percorso migliaia di chilometri, raggiungendo Trieste in ogni momento del giorno e della notte. Ho apprezzato le sue piazze, i suoi viali,i suoi negozi, i suoi musei, i suoi ristoranti. Sono rimasto sconvolto dalla lussureggiante bellezza di Piazza Unità, dall'accoglienza del Caffè degli Specchi, dalla nobiltà dei due alberghi Savoia e Duchi d'Aosta, il primo che si affaccia sulle Rive, il secondo su Piazza Unità. Ogni volta leggevo negli occhi dei miei figli la grande soddisfazione per quella località che li stava formando non solo come professionisti ma anche come cittadini. Eppure… Eppure, ogni volta che poi ripartivamo, risalendo lungo la strada che lascia il grande golfo di Trieste sulla sinistra, un senso di scoramento ci assaliva. Un silenzio colpevole imperava in macchina e non c'era nulla che potesse rompere quel doloroso assedio.
Ricordo una volta, una delle tante volte volte, quando in una sera piovigginosa di febbraio, eravamo tutti e quattro in un ristorante a cena sulle Rive, mia moglie, triste ed esasperata da quel nostro buonismo doloroso, escamò: «Ma che ci stiamo a fare qui? Torniamo a casa!»
Un silenzio tombale scese tra di noi. Nessuno riuscì a proferire una parola, né un sussulto della voce, né uno sguardo furtivo e sperduto. Nulla… Il nulla più assoluto. È come se ognuno di noi, dal suo punto di vista, avendone uno molto diverso dall'altro, non voleva turbare quel precario equilibrio che si era faticosamente raggiunto. Lì da noi c'era l'Università, c'era il mare, c'era la casa accogliente, c'era la famiglia, c'era il sole. Sì, c'erano tutti questi elementi di vita: ma non era Trieste e soprattutto c'eravamo noi, i genitori, da cui i figli volevano separarsi.
Eppure quando in occasione dei tanti traguardi conseguiti dai figli, per una sorta di piacevole appuntamento, si ritornava tutti alla Trattoria Suban, solo allora davanti allo stinco di manzo, sì, solo allora, eravamo tutti concordi… sì, tutti concordi che… sì, meglio stare a Trieste.
Poi per nostra figlia è giunto il marito triestino e poi il nipote triestino ed io continuo a percepire questo conflitto interiore, che non ho e non so se riuscirò mai a metabolizzare. Ma poi penso alle passeggiate del nipotino a San Vito, lungo quel percorso salubre ed alberato, alle sue corse felice, al suo accento che non ha nulla della nostra Bassa Italia ed allora ringrazio il Destino e ringrazio Trieste della sua benevolenza.