Un pediatra sul web
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Mi chiudo in camera

Rubrica a cura del dottor Antonio Marzano - Pediatra di famiglia

La porta è chiusa. Non posso e non devo aprirla. Si lo confermo è chiusa. Ho deciso di non aprirla. Non so bene se riuscirò in questo intento, ma sento di poterlo e doverlo fare.

La mia sintomatologia è arrivata così in un tardo pomeriggio di luglio dello scorso anno, al ritorno dallo studio.

È tutto iniziato con un senso di solletichio alla gola, presto trasformatosi in senso di soffocamento poi in dolore ed infine in una tosse esplosiva, una tosse per me del tutto inusuale che mi squassa il petto. Non ci ho messo molto a capirlo. È arrivato il mio turno! Mi chiudo in camera.

Cerco di tenere la tosse sotto controllo, ma nonostante tutti gli sforzi, nonostante mi sollevi sul letto quasi seduto, niente.
Sono le tre del mattino, non albeggia nonostante luglio, ma nel tentativo di sollevarmi in piedi, le gambe mi cedono. Una forza nuova, sconosciuta, mi tiene i muscoli delle gambe bloccati. Sembrano paralizzati. È tutto nuovo, è tutto normale, si è tutto normale.

Eppure... provare per credere.

Ne ho sentite, in questi ultimi due anni, storie di tutti i tipi dalle più fantasiose, a quelle più drammatiche. Ma il senso di dubbio ed incertezza mi rimane, anche di fronte alle lacrime di una giovane mamma che mi aveva detto: «Dottore ve lo ricordate mio padre?» E si che me lo ricordo. «È entrato in ospedale con la febbre e con una leggera tosse, e dopo circa quindici giorni è morto. Morto! E non lo abbiamo più neanche visto. Non sappiamo neanche la salma che fine abbia fatto. Hanno detto che l'hanno messa in un sacco nero della spazzatura».

Il fantasma del collega di Barletta, mi torna in mente, quasi in punta di piedi. «Antonio, -- mi fa - tu hai cercato di trovare in me fattori di rischio, per giustificare il mio trapasso e proprio nel nosocomio del tuo paese, ma è inutile: io non bevevo, non fumavo, non ero obeso come di certo ricorderai, eppure, anche io sono entrato con le mie gambe e dopo circa 20 giorni ne sono uscito... beh, lo sai: anche per me c'era il sacco ad aspettarmi».

E allora perché lui, perché?? Non c'è risposta!

Di questa soluzione nazista ne ho sentito parlare durante i turni scap, dall'infermiere che mi affianca. Sarà, ma sentirlo dire da Elena, madre di un bel bambino e mia ex paziente da bambina, suona tutta un'altra musica: Requiem di Mozart!

Mi appoggio alla sponda del letto, abbasso la maniglia e mi avvinghio alla ringhiera delle scale, raggiungo la cucina. Riconosco le capsule di brufen e ne mando giù due accompagnate da una di amoxina. Risalgo le scale con una fatica enorme e mi butto sul letto.

Ho fatto bene perché la tosse si placa e mi addormento non senza aver prima pregato il mio angelo custode di vegliare su di me. E lui lo fa.

Apro gli occhi. Sono le sei del mattino. Lo stomaco vuoto è come in pausa: non borbotta, non reclama né caffè né altro ed io comunque non ho fame. O meglio io non ho: forza, fame, vivacità, progetti, speranza. Io ho solo sonno: un sonno da preobitorio. Gli occhi mi si chiudono quasi in un rifiuto di esercitare la loro funzione. Si, ma non sono gli occhi, strumenti importanti ma meccanici. È il cervello che non va. "Mah" penso.

Chiamo il mio amico Satir e gli chiedo di portarmi i tamponi dallo studio. Si fanno le 11 quando alla presenza dei miei familiari mi infilo il lungo cottonfioc nelle narici, lo spingo più in fondo possibile e poi... e poi le due strisce scarlatte mi danno la conferma: COVID positivo.

La prima ad esplodere di rabbia è mia figlia Simona: «Proprio adesso!» E giù rimproveri. Poi afferra Giorgio, il mio nipotino di 3 anni e corre giù a fare le valigie seguita dalla madre.

Dopo due ore circa mi ritrovo solo in villa.
Ed è luglio.
Apro la finestra sulla terrazza e mi siedo ad una sedia tra il sole, il vento, la penombra e il nulla.

Una voce mi parla: meglio che la provi la storia, sei un dottore e allora prova che significa! Non dubito che le tre dosi di vaccino mi abbiano aiutato a rispondere meglio a questo virus, eppure il COVID è particolarmente selvaggio o magari quello della polio che chiamiamo selvaggio è meno selvaggio o è il vaccino meno efficace di quello della polio?

Certo se il vaccino della polio fosse stato come quello del COVID io ora mi sarei ritrovato molto ma molto peggio di come mi ritrovo. Ma è così? Mah! Avevo tanto scommesso e dichiarato sulla efficacia della vaccinazione per risolvere il problema COVID così come lo è stato con la polio, l'epatite B quella A e poi la pertosse, il tetano, la difterite, e prima il vaiolo e dopo anche il morbillo la rosolia la varicella la parotite ,senza dimenticare le meningiti. E allora?

Cosa c'è che non va? E mi viene in mente anche il colera a Bisceglie nell'estate del 1973. Il vaccino arrivò subito e si passò in pochi giorni dal terrore di una malattia biblica ed implacabile che faceva esclamare alle persone anziane: «Dottoree, mo' ama mri' tutt», agli scherzi goliardici con le gocce di guttalax. In questo turbinio di pensieri confusi, disordinati, compulsivi, mi risdraio sul letto e ricado nelle braccia di Morfeo.

Alle 19 mi sveglio, riprendo il contatto con la realtà, scendo in cucina e nell'aprire il frigo vedo una fornitura di porzioni di pasta al forno acquistate da Simona per non meno di una settimana. Simona prima di abbandonare la casa, ha sentito il dovere di garantire al padre la sussistenza. Mi ingollo una scodella come se mandassi giù una medicina e ritorno su a letto.

Poi i giorni si ripetono tutti uguali. Solo dalla mattina alla sera, quasi rassegnato, certo di una soluzione. Non miglioro. Chiamo mio cognato Erminio che mi ascolta in un momento di sconforto e di abbandono. Poi mi addormento e dormo ore ed ore e quando mi risveglio non capisco più che giorno sia, ma non ho paura. Si non ho paura.
Sono serenamente rassegnato.

All'alba di quello che scopro essere il decimo giorno dall'inizio di questa storia, mi sveglio e, come un temporale che ha scaricato pioggia, tuoni e fulmini per tutto questo tempo, all'improvviso il cielo è limpido, azzurro, il sole è caldo, la fame è ritornata, la mente si è rischiarata. Non ho più sonno.

Mi faccio il tampone: negativo!

Ringrazio Dio e almeno per il momento non mi pongo più domande. Salgo in fretta in macchina e vado a Savelletri al mare a trovare la mia famiglia.

E la storia potrebbe finire qui, ma in realtà la storia è appena iniziata. Tornato in studio, se prima le cose erano già cambiate e di questo cambiamento avevo percepito solo una parte e quella meno importante, il sorriso beffardo del genitore, poi quello che ho percepito è stata da parte sua, la sfiducia, il sospetto, il dubbio. Ogni parola che dico non ha più quella incidenza che aveva prima.

Esempio: «Dottore, il bambino ha la tosse». lo visito come ho sempre fatto, ma qualsiasi sia la mia diagnosi: «Dottore, ma avete sentito bene? E si perché questa mattina il bambino non respirava bene e la mia amica ha detto che può essere una infezione come quella che ha preso il nipote a Milano. Dobbiamo fare le analisi»

E allora rispondo: «Che analisi vogliamo fare? Voi cosa ne pensate? Cosa suggerite»
«Come quelle che il pediatra di mia sorella ha fatto fare a suo figlio»
«E come terapia?»
«Non mi date l'aresol che il bambino non lo vuole fare. Datemi il puff, ma non quello arancione, quello verde, che va meglio».
«Ha bisogno dell'antibiotico»
«Si, si ma non mi scrivete quello dell'altra volta che non gli piace, scrivete quello alla fragola. Anzi meglio quello che si dà una volta al giorno. E una visita all'otorino non la posso fare? Mia cugina ha visto in internet e ha detto che può essere l'allergia. Perché non mi scrivete le analisi della allergia e le prove allergiche. Anzi ha detto mio fratello... Fatemi la richiesta del day service così vado in ospedale e faccio tutto li»

E questa "pediatria della trattativa" si ripete per ogni bambino, con tutti i genitori. Sono ormai alla profilassi della profilassi del bambino sano. Non mi sento più in grado di gestire, accompagnare, seguire, capire, questo cambiamento. Altro che COVID e pandemia, qui non ci capisco più niente. A questo punto mi convinco che sia tutta mia la responsabilità di non essere in grado di gestire il cambiamento.

È preferibile passare il testimone, prima di essere del tutto travolto. A dire il vero era già da qualche anno che avevo percepito che, la mia figura di pediatra di famiglia, non era più idonea, che era il momento di cambiare il sistema del servizio sanitario pediatrico di base. Ma non è stato condiviso.

Per cui, eccomi a dire: la mia finestra aperta nel settembre del 1985 si chiude nel maggio del 2023. È stato un privilegio garantire alla mia comunità, la mia figura di pediatra. Consegno il testimone ad una nuova generazione di medici pediatri.

Buon lavoro. Io ho finito qui!
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Rubrica di pediatria a cura del dottor Antonio Marzano - pediatra di famiglia

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